L’enciclopedia Treccani riporta il termine “panpenalismo” tra i neologismi e lo definisce così: “s.m. Concezione in base alla quale ogni tipo di reato ha rilevanza penale… Carlo Nordio e Giuliano Pisapia… sono giunti alle stesse conclusioni: che «le pene non devono essere aumentate, semmai diminuite» (Nordio), che «bisogna smetterla con il panpenalismo» e che l’idea di potere risolvere tutto con il codice penale «è solo propaganda, pericolosa demagogia» (Pisapia)”.

Il neologismi nascono e si affermano quando i tempi cambiano e c’è bisogno di nuovi concetti e nuove parole per esprimerli. In questo caso l’origine sta nell’affermazione del pensiero debole e postmoderno (del poco compianto Vattimo) che dichiara la fine delle ideologie (altrui), che “critica” tutto ma finisce per accettare l’esistente, un pensiero superficiale, appiattito sul presente e sul consumo immediato. Cioè il pensiero che ha favorito la nascita della cosiddetta “seconda repubblica”, del populismo, della politica ridotta a battute da talk show.

Tutte le leggi hanno anche un contenuto culturale, ma sono definibili “legge-manifesto” quando la loro funzione è solo propagandistica, perché la nuova norma non è applicabile, o non è accompagnata da altre misure che ne consentano l’applicazione. Il panpenalismo è, appunto, una delle finte “risposte” (superficiali, ineffettuali, propagandistiche) a veri problemi.

Partiamo da un esempio che dimostra come il postmodernismo sia diffuso anche a sinistra: le morti sul lavoro provocano anche un’ondata emotiva che può (comprensibilmente) esprimersi con la richiesta di pene più severe. In realtà non serve a nulla aumentare le pene se poi non vengono comminate, in particolare ai ceti elevati che hanno dotazioni economiche e relazionali per eluderle. Per ridurre le morti sul lavoro serve una volontà politica che si traduca in una serie di misure (più ispettori, meno appalti, più formazione, ecc. ecc.). Se un politico propone l’introduzione di un nuovo reato (l’omicidio sul lavoro) e non le misure concrete per evitare l’elusione delle norme già esistenti, in realtà sta proponendo solo una “legge-manifesto”, per i suoi interessi.

Se il postmodernismo e il populismo colpiscono anche a sinistra, figuriamoci a destra. Il governo Meloni si è affermato cavalcando (e alimentando) le paure. Sul piano economico non sta facendo niente di sostanzialmente diverso dalle politiche neoliberiste dei governi precedenti che hanno aumentato le disuguaglianze. Vi stanno “solo” aggiungendo la loro concezione autoritaria, una riproposizione premoderna di dio-patria-famiglia e più pene per tutti, che però resteranno inapplicate o irrogate solo a qualche sfigato dei ceti popolari.

Non siamo certo tra quelli che giustificano tutti i comportamenti con i problemi sociali, o che pensano che il “recupero” escluda sempre la punizione. La responsabilità è individuale e sociale, e servono politiche razionali per prevenire, recuperare e dissuadere. E bisogna investire soprattutto in educatori, poi anche in controllori (in realtà anche la PS è sotto organico e mal pagata).

Il governo Meloni finora è sempre intervenuto per sfruttare un’onda emotiva (Cutro, Caivano, ecc.) aumentando le pene, in modo spesso squilibrato: con il reato di rave, con i reati legati all’immigrazione, alle violenze di genere, contro il personale sanitario e scolastico (e anche multe ai genitori), contro il piccolo spaccio, la guida e il parcheggio scorretto, ecc. ecc. Tutte pene aumentate senza fare nulla per risolvere i problemi e prevenire i reati, cioè solo leggi-manifesto, a fini elettoralistici.