La befana vien di notte con le scarpe tutte rotte, i filantropi invece fanno una vita più tranquilla, e sono oggi alla moda.
Fino a circa mezzo secolo fa pagavano le tasse sui profitti, sui patrimoni, sulle successioni; poi, un po’ alla volta, la progressività della tassazione si è ridotta e i paradisi fiscali sono aumentati, i bilanci degli Stati sono entrati in crisi e con essi il welfare state, nuove leggi sono state promulgate per scaricare ulteriormente dalle tasse le donazioni filantropiche.

Oggi la filantropia tende a sostituire i diritti. La filantropia (quand’anche non fosse un semplice espediente per eludere le tasse) non si basa su idee di giustizia ma (nella migliore delle ipotesi) sulla compassione. I filantropi non agiscono vincolati da scelte pubbliche (cioè democratiche, nell’interesse dei cittadini) ma dalla propria visione del mondo e dai propri interessi, privatizzano anche le scelte politiche, e hanno costruito una meta-narrazione (un’ideologia) che li descrive come i “buoni” che aiutano i poveri, che sostituiscono l’intervento pubblico (dichiarato per definizione inefficiente).

In realtà le ricerche effettuate mostrano come il filantrocapitalismo del liberismo compassionevole sia funzionale all’aumento delle disuguaglianze, alla permanenza delle asimmetrie di potere, ci riproponga un mondo pre-moderno, basato non sui diritti ma sulla benevolenza dei potenti.
In questo converge con la dottrina sociale della chiesa cattolica che promuove il principio di sussidiarietà, contro lo Stato moderno che si fonda sull’autodeterminazione dei cittadini, non sul “dono” di un dio interpretato in esclusiva da un apparato (chiesa).

Optare per i diritti, finanziati da una tassazione fortemente progressiva, richiede poi una lotta costante per un uso razionale ed egualitario delle risorse così raccolte, tenendo però sempre a mente la differenza di orizzonte di senso che c’è tra la lotta solidale, egualitaria, per i diritti, e la carità, che arricchisce il donatore, non il destinatario.