Resistere all’introduzione dell’autonomia differenziata è difficile perché anche molti che la criticano hanno assorbito la visione antistatalista e antimoderna di neoliberisti, cattolici e leghisti.
L’autonomia differenziata è il cavallo di battaglia della Lega, un partito “federalista” in crisi, assorbito elettoralmente dal “nazionalista” Fratelli d’Italia. Ciò nonostante il progetto dell’autonomia differenziata resta forte, perché ha radici più profonde di quanto generalmente si riconosca.
L’esito sembra dipendere più da dinamiche interne alla maggioranza di destra (l’eventuale scambio tra presidenzialismo e autonomia differenziata) che dalle forze politiche all’opposizione che ne denunciano le conseguenze, ma che (molte di loro, sia pure a vari gradi di responsabilità) ne sono state promotrici.
Anche coloro che si oppongono con decisione all’autonomia differenziata, criticano molto il prevedibile effetto (l’aumento delle disuguaglianze, la secessione dei ricchi) ma poco le ideologie che lo sostengono; alcuni assumono proprio i valori delle visioni del mondo di chi promuove l’autonomia differenziata. Serve la massima unità, anche la flessibilità per alleanze tattiche, ma un’opposizione priva di una propria autonoma e organica visione del mondo è inevitabilmente meno efficace.
L’esito, se non peggiore, potrebbe essere il “compromesso” rappresentato da una autonomia differenziata “buona” (alla Bonaccinii, contrapposta a quella “cattiva” di Calderoli) che limita gli effetti più devastanti con delle “toppe” (compensazioni, LEP, ecc.) ma che accetta l’ulteriore destrutturazione della funzione pubblica dello Stato.
Il federalismo divisivo della Lega
Gianfranco Miglio è l’ideologo della Lega, nonostante abbia dissentito a suo tempo da Bossi e certamente dissentirebbe con ancora più forza dalla fallimentare trasformazione della Lega Nord nella Lega per Salvini Premier. Le “teorizzazioni” leghiste hanno oscillato tra secessionismo (con l’invenzione della Padania), devolution (fallita con la bocciatura del referendum costituzionale del 2006), federalismo fiscale di Calderoli, sovranismo di Salvini; il riferimento più organico, comunque, resta quello dell’analisi di Miglio.
Gianfranco Miglio sosteneva che l’Italia era stata unificata formalmente dalle norme imposte dai piemontesi, ma restava sostanzialmente divisa (era di fatto “criptofederalista”). Con la caduta del muro di Berlino del 1989 lo Stato-nazione della modernità era giunto al capolinea e sarebbe stato presto sostituito da una società pluricentrica, basata su aggregazioni territoriali e categoriali, “come nel medioevo”.
Il pensiero di Miglio, iscritto alla DC e dal 1959 rettore di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, più che al (mai realizzato) corporativismo fascista, si rifaceva al federalismo di Cattaneo e soprattutto alla dottrina sociale della chiesa; rimase però un pensiero di nicchia finché la seconda globalizzazione del capitalismo, negli anni 1990, non evidenziò il declino degli Stati nazionali.
Era l’epoca in cui Francis Fukuyama dichiarava la fine della storiaii, quando dominava il pensiero unico (l’omologazione delle concezioni e delle idee politiche, economiche e sociali); il pensiero socialista era stato svuotato dalla “terza via” di Blair; il pensiero debole e postmodernista criticava tutto e finiva per accettare tutto (sia pure debolmente), con i movimenti frammentari e monotematici che “evolvevano” dal no global al new global, al glocalismo postmoderno.
Il capitalismo si presentava come cosmopolita, deterritorializzato, globalizzato; in realtà la “territorialità” manteneva una notevole importanza materiale ma si articolava in centri (global cityiii) e periferie; il luogo delle decisioni si spostava “in alto”, svuotando le istituzioni nazionali democratiche, quelle che “garantiscono” (lottando) i diritti della cittadinanza, e provocava reazioni “in basso”, con localismi e corporativismi; il trilemma di Rodrikiv sintetizza la difficoltà di tenere insieme democrazia, Stato-nazione e globalizzazione.
Il federalismo divisivo e corporativo della Lega da un lato assumeva l’ideologia dello Stato minimo (contro le tasse di Roma ladrona) e, di fatto, l’antistatalismo del neoliberismo cosmopolita delle multinazionali (e degli Stati Uniti che dominano l’Occidente); dall’altro reagiva rappresentando, in termini conservativi e difensivi (prima gli…), i presunti interessi dei perdenti, delle periferie. Complessivamente il populismo leghista accettava lo schema neofeudale, basato sull’ideologia cosmopolita del mercato “autoregolato” e sulla gestione locale degli interessi economici, come sosteneva Gianfranco Miglio.
Anche le sinistre, ormai liquide e postmoderne, accettavano il mainstream e, per fermare l’onda leghista, la “anticipavano” con la riforma del Titolo V del 2001, basata sul principio di sussidiarietà.
La dottrina sociale cattolica
Il principio di sussidiarietà è nato alla fine del XIX secolo. La chiesa cattolica ha preso atto che il potere temporale perduto a seguito della formazione degli Stati nazionali (dell’Illuminismo, della modernità) non era recuperabile nelle stesse forme del passato; si è proposta quindi di riconquistarlo “dal basso”, negando la legittimità dello Stato-nazione, considerato “artificiale” (immanente, un transitorio prodotto umano) e da subordinare alla comunità “naturale” (trascendente, permanente perché creata da dio e interpretata dalla chiesa universale, cattolica).
Il principio di sussidiarietà è stato elaborato dal vescovo di Magonza von Ketteler nel 1873, ripreso nell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII nel 1891, ribadito nella Quadragesimo anno di Pio XI nel 1931, nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II nel 1991v, e presentato da tutti i papi come perno della dottrina sociale cattolica.
L’antistatalismo della chiesa cattolica è passato da una contrapposizione frontale verso il liberalismo (e ancora più verso il socialismo) a una tattica più flessibile; infatti il principio di sussidiarietà è articolato in sussidiarietà negativa e positiva. La prima è affine al liberi dallo Stato del laissez-faire e al calvinista principio di sovranità delle sfere che prescrive la protezione delle chiese dall’ingerenza dello Stato; invece la seconda, la sussidiarietà positiva, chiede allo Stato di ritrarsi ma di sostenere con sussidi le attività privatizzate, è affine all’ordoliberalismo che riconosce la necessità di un intervento attivo dello Stato purché sia a tutela del predominio del mercatovi.
Il principio di sussidiarietà si articola anche in sussidiarietà verticale e orizzontale. La sussidiarietà verticale (da non confondere con il decentramento) prescrive che un livello inferiore deve essere sempre privilegiato rispetto a quello superiore. Il caso della pandemia ha dimostrato che la proliferazione dei centri decisionali può essere inefficiente e favorire l’autoreferenzialità dei cacicchi locali, gli interessi corporativi, localistici, nimbyvii. Quello leghista non è un federalismo che unisce, ma che divide; non favorisce la convivenza e la contaminazione delle diversità, ma la costruzione di muri, ghetti e micro-identitarismi.
Il principio di sussidiarietà orizzontale prescrive che il privato, profit e non profit, deve essere sempre privilegiato rispetto al pubblico, che per definizione sarebbe sempre burocratico, inefficiente, insensibile, clientelare, vessatorio, ecc.; è un antistatalismo importato dagli Stati Uniti dove l’approccio al welfare (tranne la parentesi del New Deal) è sempre stato basato sul filantrocapitalismo, diversamente dall’Europa dove lo Stato, in forme e misure diverse (welfare bismarckiano, scandinavo, universalista, mediterraneo) ha sostituito le opere pie premoderne.
Però, alla fine dei socialdemocratici “magnifici trent’anni”, l’egemonia neoliberista si è affermata con Thatcher che dichiarava l’insostenibilità fiscale del welfare alla Beveridge e con l’invenzione del Terzo settore (né Stato, né mercato), a cui scaricare progressivamente la funzione pubblicaviii, con la sanità convenzionata, con la scuola paritaria, con l’esternalizzazione dei servizi. Ne hanno beneficiato le numerose associazioni cattoliche (Caritas, CL, AC, Acli, Cisl, ecc.) che hanno ripreso slancio, ruolo, prestigio, presenza materiale e politica, grazie alla convergenza di liberismo compassionevole, federalismo leghista e dottrina sociale cattolica.
La crisi della globalizzazione
Miglio considerava “naturali” gli squilibri territoriali e controproducenti le norme uniformanti adottate dal regno sabaudo. Esistono però altre interpretazioni che rovesciano questo schema antistatalista, criticando semmai la qualità dell’intervento dello Stato, ma spiegando il particolarismo degli italiani con la scarsa partecipazione popolare al Risorgimento e con il ritardo della formazione dello Stato nazionale (Franza o Spagna purché se magna), della modernizzazione (presenza dello Stato pontificio), dell’industrializzazione e della riforma agraria (formazione di una classe dirigente poco responsabile e lungimirante, elitista e sovversivista).
Da un punto di vista giuridico, il principio di sussidiarietà compare nelle norme europee e, in Italia, nella riforma del Titolo V, ma incontra ancora la resistenza di autorevoli costituzionalistiix. Inoltre, la crisi del 2007 e la pandemia hanno mostrato i limiti della globalizzazione e delle sue narrazioni. L’aumento delle tensioni internazionali, accentuate dall’invasione russa dell’Ucraina, spingono a cambiare le catene del valore, basate in epoca di incontrastato globalismo sull’off shoring; ora tendono a trasformarsi in short shoring o in friend shoring, più adeguate a una contrapposizione geopolitica multipolare o per blocchi. L’antistatalismo dell’ideologia neoliberista resta dominante ma aumentano le voci critiche che rivalutano il ruolo dello Statox.
La Lega teme di perdere l’ennesimo tram e mette fretta agli alleati fratelli-coltelli che, pur condividendo corporativismo e sussidiarietà, mantengono suggestioni centraliste e presidenzialiste; il centro-sinistra ha promosso il principio di sussidiarietà (assunto anche dall’estrema sinistra movimentistaxi) e riesce a opporsi solo agli effetti più devastanti dell’autonomia differenziata; il m5s appare più reattivo, se non altro per difendere le sue basi elettorali nel Mezzogiorno, ma è privo di una visione organica.
Liberisti, cattolici, leghisti e frammenti della sinistra condividono un’analisi che dichiara esaurito (fiscalmente insostenibile) il welfare universalistico, che deve essere adattato alle diverse comunità (welfare prossimale, aziendale, settoriale, territoriale), che devono imparare a meritarselo “responsabilizzandosi” (cioè a non considerarlo un diritto garantito dallo Stato); dando ruolo alle famiglie (cioè scaricando sulle donne); valorizzando la libertà di scelta (cioè sussidi ai privati e non servizi pubblici); per aiutare gli ultimi che essendo “fragili” devono essere salvati, a carico dei penultimi (non invece organizzati per una lotta solidale per i diritti).
La politica è ridotta alla sola propensione etica, e alcuni orfani della sinistra si aggrappano a qualche dichiarazione suggestiva di Bergoglio, senza accorgersi dell’antimodernismo in cui è inserita; il pensiero socialista è stato sconfitto anche semanticamente: molti termini del suo lessico sono stati abbandonati, deformati o sostituiti da altri contigui alla visione del mondo dominante (cosmopolitismo al posto di internazionalismo, fragilità e cura al posto di rappresentanza e lotta). Senza una autonoma visione del mondo sarà difficile fermare l’autonomia differenziata.
Giancarlo Straini
iStefano Bonaccini: «Io sono di quelli che per primi la proposero. Io proposi una autonomia che è diventata un patrimonio del centrosinistra, ma anche apprezzata da presidenti del centrodestra al Sud, quelli che hanno il timore che una autonomia fatta in modo sbagliato tolga a chi ha di meno e dia a chi ha di più … servono i livelli essenziali di prestazioni, serve una legge quadro votata dal Parlamento per superare la spesa storica, e poi va tolta l’espressione dei ‘residui fiscali’ perché, se trattieni le tasse, si avvicina più alla secessione che all’autonomia differenziata». Bonaccini sottolinea poi di non volere «un euro in più, l’importante è gestire noi alcune risorse che già arrivano». No alla devoluzione dei poteri «alle regioni su scuola e sanità» (Regioni.it 16/01/23).
iiFrancis Fukuyama, nel suo libro, che ebbe grande diffusione, The End of History and the Last Man (La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli 1992), sosteneva che capitalismo e liberal-democrazie avevano raggiunto il culmine dello sviluppo socio-culturale dell’umanità.
iiiIl termine è stato reso popolare dal libro del 1991 di Saskia Sassen The Global City, per indicare i luoghi nel mercato globale in cui si concentrano il potere finanziario e le infrastrutture ad alta tecnologia. Per estensione viene usato anche per casi minori (es. la mini global city Milano città-stato) per indicare la polarizzazione del territorio causata da gentrificazione, speculazione edilizia, specializzazione dei servizi, ecc.
iv«La democrazia è compatibile con la sovranità nazionale solo se mettiamo limiti alla globalizzazione. Se spingiamo sulla globalizzazione e manteniamo lo Stato-nazione, dobbiamo rinunciare alla democrazia. E se vogliamo la democrazia insieme con la globalizzazione, dobbiamo accantonare lo Stato-nazione e impegnarci per una maggiore governance internazionale» (Dani Rodrik, La globalizzazione intelligente, 2011, Laterza 2014).
v«una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità» (Giovanni Paolo II, Centesimus annus).
viPer Michel Foucault gli ordoliberali vogliono «uno stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato».
viiIl testo, essendo necessariamente sintetico e schematico, non considera l’ambivalenza che a volte accompagna le resistenze locali alle privatizzazioni imposte dal livello nazionale e sovranazionale.
viiiGiovanni Moro sostiene che: «È proprio alla fine degli anni ’70 del XX secolo, infatti, che si sono cominciate a usare formule come “organizzazione non governativa”, “privato sociale” o simili … Nella opinione pubblica e tra gli addetti ai lavori è ormai pressoché indiscusso che esista un settore non profit nelle società contemporanee. Ciò spesso viene dato per scontato, quasi come se fosse un dato naturale. Il non profit, invece, è una invenzione che ha dei padri e una data di inizio. È infatti della prima metà degli anni ’90 il Johns Hopkins Comparative Nonprofit Sector Project, promosso dalla omonima università di Baltimora e diretto da Lester Salamon» (Contro il non profit, Laterza 2014). Ma lo stesso Salamon riconosce che in Europa le resistenze sono ancora forti: «il terzo settore in Europa manca di una chiara identità e non c’è una chiara comprensione condivisa in tutta Europa e all’interno dell’Unione europea su cosa sia esattamente il terzo settore e quale sia il suo ruolo nello spazio pubblico europeo» (The Third Sector as a Renewable Resource for Europe, 2018).
ixIl principio di sussidiarietà è citato nel trattato che istituisce la Comunità Europea (1957) nell’art. 5 (ex 3B) e nel Trattato di Maastricht del 1992, ma non è considerato come un criterio formale di ripartizione delle competenze. Per Sabino Cassese il principio di sussidiarietà è «ambiguo, con almeno trenta diversi significati, programma, formula magica, alibi, mito, epitome della confusione, foglia di fico» (1995).
xNegli ultimi anni sono stati pubblicati vari libri critici nei confronti dell’antistatalismo dominante, tra questi: Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani 2014; Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza 2016; Mariana Mazzucato, Il valore di tutto: Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza 2018; Chiara Cordelli, Privatocrazia. Perché privatizzare è un rischio per lo Stato moderno, Mondadori 2022.
xiIl principio di sussidiarietà è diffuso anche a sinistra; l’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà presieduto dal ciellino Lupi ha raccolto adesioni da FdI a Art.1; alcuni, accorgendosi della contraddittorietà con una politica egualitaria universalista, tentano velleitariamente di risemantizzarlo aggettivandolo con civile, circolare, ecc. ma con il solo effetto di favorirne l’accettazione.