Parlando di streghe, vale la pena forse soffermarsi sulla parola stessa: un termine d’uso comune, addirittura abusato, e del quale si è da tempo ormai appropriata la cultura Pop, tanto da mutarne profondamente il senso.
Viene da dire che oggi “strega” può essere a tutti gli effetti considerato un tropo, uno di quei contenitori semantici da infarcire, via via che si susseguono i trend sociali, con gli ingredienti concettuali più disparati e in totale libertà, tanto da essere oggetto d’un vero e proprio shift culturale (per dirla col gergo della contemporaneità).
Un termine buono “per tutti gli usi” quindi, soprattutto a uso e consumo del pervasivo territorio della fiction, con conseguente ammissione a pieno titolo delle streghe in quel variegato pantheon che popola l’immaginario collettivo, accanto alle fate, agli Elfi, ai vampiri, agli zombie e ai supereroi.
Si potrebbe perfino utilizzare per un test attitudinale, che si rivelerebbe con tutta probabilità d’estrema efficacia: «dimmi a che strega pensi, e ti dirò a quale generazione appartieni»: a seconda che venga in mente la Regina Cattiva di Biancaneve, la Befana con la sua scopa e le sue calze, la principessa di una serie Fantasy o il character di un manga o di un videogame, si rivelerà l’età: in quali tempi siamo cresciuti, qual è l’incanto che ha informato e strutturato la nostra infanzia, la narrazione dominante nel bagaglio immaginativo che ci portiamo dietro.
Ma non c’è solo l’universo della Pop-culture. C’è anche la valenza/violenza della parola, usata come insulto.
Retaggio culturale estremamente tenace da sradicare e arrivato fin quasi ai nostri giorni, vivissimo ancora fino al dopoguerra e stemperatosi solo col boom economico, a testimonianza di quanto fosse ancora forte, e duro a morire lo stigma di presupposta “selvatichezza” insita nel temperamento femminile, e di minor altezza morale rispetto all’uomo.
Nelle scene dei film e nei dialoghi dei romanzi — così come nelle chiacchiere di strada – quando due donne “s’accapigliavano”, la “buona” generalmente accusava la rivale di essere “una strega”.
Strega come intrigante, strega come donna di malaffare, strega come “ruba-mariti”, strega come bisbetica (leggi: indomita), insomma strega come donna cattiva e dedita a fare del male agli altri.
Ma nel tempo, c’è stato anche un lento recupero d’una qualche forma di oggettività storica, questo va riconosciuto; complice la graduale scolarizzazione delle masse e la diffusione della cultura, per quanto volgarizzata, grazie alla televisione e agli altri mezzi d’informazione.
La laicità si è scavata, a fatica ma tenacemente una galleria attraverso le intolleranze, e con essa ha portato un innegabile processo di riabilitazione delle streghe.
È arrivato perciò il tempo della positivizzazione, perlopiù in chiave Pop tanto quanto la versione malvagia che l’aveva preceduta: Chi ha l’età di chi scrive (un boomer dunque, o un X) ricorderà senz’altro le sitcom in salsa camp di enorme seguito degli anni ’60 e ’70, “Vita da Strega” e “Strega per Amore”. Da megera a graziosa casalinga un po’ svampitella…
Un’ulteriore e più recente evoluzione, volendo avvicinarci all’attualità, è Maleficent, una strega che è passata dall’essere spaventosa e malevola nella versione della Bella Addormentata di W. Disney a eroina positiva e con cui poter empatizzare, in quella del film con Angelina Jolie.
Si potrebbe andare avanti ancora per molto… la serialità e la fiction odierne sono piene zeppe di streghe, in tutte le varianti.
Strega quindi da donna malvagia a donna “forte”, ribelle, indipendente, unconventional.
Un bel salto di qualità, niente da dire.
Ma della vera “strega diabolica” – passatemi questo termine paradossale, non stiamo disquisendo del sesso degli angeli, parliamo di verità storica – quella eretica, cacciata e perseguitata, cosa ne è, cosa sedimenta nella memoria collettiva?
Della Caccia alle Streghe crediamo di sapere quasi tutto, o comunque quanto basta per aver capito che furono vittime innocenti d’un pregiudizio e di una macchinazione, ma questa presupposta conoscenza è estremamente deficitaria, e stasera lo potremo constatare.
Sui processi, sui roghi, c’è un’ampia letteratura e molta divulgazione pseudo-storica, quasi sempre passata attraverso i filtri della Modernità (prima) e della Postmodernità (poi), intrinsecamente fatti di molta orizzontalità e poca verticalità, tanto che l’effetto opacizzante è assicurato.
Attraverso questa filigrana tanti dettagli, tante componenti importanti si perdono, e non è cosa da poco.
Su questo lungo e oscuro capitolo della storia, che copre grossomodo quattro secoli – dal XV° al XVIII° Sec. – vale davvero la pena documentarsi meglio, per correggere o eliminare un bel po’ di false convinzioni, così da sviluppare una visione più chiara del nostro passato e – soprattutto – dotarsi di strumenti più efficaci per analizzare il nostro presente.
Leggendo Montagne Stregate, molte delle certezze di chi scrive in materia si sono rivelate fallaci, a partire da quelle riguardanti il “dove”: da buon romano, davo per scontato che il fulcro delle attività inquisitorie della Chiesa riguardo le streghe si trovasse là nella culla della cristianità, dove risiedeva il Soglio Pontificio, nonché in Spagna (la famigerata Santa Inquisizione spagnola, Torquemada et similia); insomma: bacino mediterraneo, in un ambito antropologico-culturale di tradizione e appartenenza latine.
Invece ho scoperto che il vero brulicare di processi, l’imperversare di inchieste, l’inferocirsi di poteri ecclesiastici e autorità secolari e l’accanimento del popolo, furono soprattutto nel Nord. Lombardia, Piemonte, l’entroterra ligure, le vallate appenniniche e le Alpi fino alla Svizzera.
“Zone di confine”, a quell’epoca, in senso culturale prim’ancora che geografico: lande selvagge, terre silvane e dedite a riti ancestrali e pagani che andavano ricondotte – con la forza, se necessario – nell’alveo della Cristianità.
Viene voglia di aprire Google Maps, procedendo nella lettura, per andare a “vedere” e inoltrarsi nei territori descritti, e anzi si rimpiange di non avere sottomano una vera carta, una mappa cartacea di quelle d’una volta, da poterci individuare sentieri impervi e percorsi accidentati, da seguire col dito.
Ha un che di straniante, pensare a questi borghi idilliaci, oggi spesso disabitati oppure divenuti turistici, a queste vallate immerse nella natura, mete di turisti escursionisti e appassionati di trekking, e immaginarli teatro di estremismi religiosi parossistici, di processi spesso sommari, di esecuzioni pubbliche, di impiccagioni, di roghi.
Il ruolo determinante, e misconosciuto di queste località, ha contribuito allo sviluppo e alla propagazione dei processi a tal punto da fare di Milano il luogo ideale per un possibile monumento alle Streghe.
Mi spiego meglio: se Roma rappresentò la scelta logica, quando venne eretta – con la strenua opposizione della Chiesa – la statua di Giordano Bruno (proprio lì, in piazza di Campo de’ Fiori dove fu arso), primo monumento a un martire del Libero pensiero, un’altra opera commemorativa, stavolta a memoria di una “martire collettiva” (tutte le donne perseguitate, ingiustamente processate e trucidate durante la Caccia alle Streghe) troverebbe un sito più che consono, come Piazza Vetra, o al Verziere, oggi Largo Augusto, e per gli stessi motivi.
La lunga caccia alle streghe non è avvenuta millenni fa, è più vicina al nostro presente di quanto non pensiamo, o – probabilmente – ci piaccia pensare, e forse i suoi “cascami” ideologici e culturali sono arrivati fino a noi, e lambiscono ancora il brodo sociale nel quale siamo immersi.
Credo sia opportuno saperne di più, per prepararci maglio al futuro che ci attende.