Simone de Beauvoir sosteneva che esistono modi diversi di agire e di pensare, ma non sono determinati dalla “natura”, dalla biologia; le donne sono state costrette a ruoli sottomessi da concezioni politiche e religiose che hanno sedimentato nel corso dei secoli una cultura maschilista: donne non si nasce, lo si diventa. L’Illuminismo ha affermato le idee di libertà e uguaglianza, che inizialmente si sono concretizzate per i possidenti maschi bianchi, e che i movimenti socialisti, femministi e antirazzisti hanno progressivamente esteso ai non possidenti, alle donne, alle varie etnie.

Grazie al femminismo, il suffragio universale si è consolidato già da fine ‘800 in Nuova Zelanda, poi in Finlandia e con la Costituzione sovietica del 1918, progressivamente in quasi tutte le nazioni (in Italia nel 1945); la diffusione della legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza in epoca moderna è iniziata nell’Unione sovietica, in Islanda, in Svezia (in Italia nel 1978) ma trova ancora molti ostacoli e divieti nel mondo; la parità di retribuzione è formalmente riconosciuta quasi ovunque ma permangono forti disparità sostanziali; sempre più paesi riconoscono il pari trattamento nelle famiglie e nella gestione dei beni; l’accesso alle professioni, alle cariche pubbliche e dirigenziali vede una crescente presenza delle donne; in generale, permangono ancora forti disparità tra donne e uomini (e tragiche reazioni quali i femminicidi) ma il movimento femminista sta consolidando i diritti all’uguaglianza.

Negli ultimi decenni sono emerse analisi che hanno messo in guardia contro il rischio di considerare l’uguaglianza come una semplice assimilazione agli schemi maschilisti dominanti; la cultura tradizionale è talmente profonda e pervasiva che c’è effettivamente il rischio che l’uguaglianza si traduca nell’assunzione di schemi maschilisti anche da parte delle donne. Queste opportune osservazioni critiche hanno però alimentato anche concezioni essenzialiste, basate su una presunta “natura”, non determinata dalla storia ma dalla biologia, che rischia di consolidare – rovesciandoli in positivo come qualità femminili – i ruoli di cura, “materni” e i caratteri psicologici assegnati alle donne dalle culture religiose e patriarcali.

In alcuni casi (legge Zan, referendum sulla procreazione medicalmente assistita) abbiamo visto una convergenza tra tradizioni clericali e settori del “femminismo giusnaturalista”. Non si capisce perché dovremmo cristallizzare un binarismo maschio/femmina e non considerare anche le differenze, per esempio, di orientamento sessuale più o meno fluido tra uomini e tra donne.

Il dibattito tra femminismo dell’uguaglianza e femminismo della differenza è molto più complesso e non è certo “risolvibile” nelle poche frasi accennate sopra. Certamente, il concetto di intersezionalità ci aiuta a articolare su più livelli il riconoscimento delle discriminazioni e delle oppressioni. Come è definito nell’enciclopedia Treccani, il femminismo è il «Movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne; in senso più generale, insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una collocazione sociale paritaria in quella pubblica».

ArciAtea sostiene l’idea di laicità riassunta nella frase di Grozio etsi deus non daretur (come se dio non fosse dato) che invita a un confronto nella sfera pubblica basato sull’autodeterminazione dei cittadini e delle cittadine e non su “Verità” rivelate, su dogmi religiosi o politici. Il principio di laicità di Grozio può essere declinato anche in etsi sexus non daretur (come se il sesso biologico non fosse dato) perché nella sfera privata siamo tutti diversi ma nella sfera pubblica dobbiamo lottare per essere riconosciuti come uguali.