“Beato il popolo che non ha bisogno di eroi” – diceva Bertolt Brecht – non per negare l’utilità di comportamenti esemplari, ma per affermare che in una società più giusta c’è meno bisogno di individui eccezionali che lottano per la giustizia, per una società di liberi e uguali.

“Beato un popolo che riconosce di aver bisogno di eroi. E li onora come Dio comanda” – dice invece Marcello Veneziani – insieme alla destra che considera “naturali” le disuguaglianze, le gerarchie, i capi carismatici (autoritari o paternalisti) necessari per perpetuare le figure del padre/padrone/padreterno.

Essendo (ahinoi) molto lontani dal popolo auspicato da Brecht, abbiamo bisogno di eroi, a tal punto che talvolta ce li fabbrichiamo e li sacralizziamo. Sono antichi e potenti gli schemi del sacro, della deificazione, della mitizzazione di cose e persone.

Abbiamo recentemente ricevuto l’informazione che in Svizzera il numero dei non credenti ha superato quello dei cattolici. Anche in Italia la secolarizzazione procede impetuosa, soprattutto tra i giovani. Anche chi continua a definirsi cattolico non accetta più la concezione totalitaria che vorrebbe la chiesa, ma adotta una religione a bassa intensità, superficiale e frammentata.

I residui bisogni di sacro si esprimono comunque in tante forme, ma testi come “Il superuomo di massa” di Umberto Eco riescono a spiegare il sacro di queste nuove narrazioni molto meglio delle encicliche del papa.

Un esempio recente è la sacralizzazione del bravo tennista Jannik Sinner. La crisi della politica rende più difficile individuare eroi nel sociale, anche perché di solito non sarebbero figure vincenti ma eroi tragici, come il personale sanitario, tanto celebrato durante la pandemia e poi frettolosamente abbandonato nell’oscurità mediatica e materiale della sanità privatizzata.

Il postmodernismo, invece, richiede eroi vincenti, da consumare subito, come un flame sui social. Nell’Italia in declino, non solo economico, la speranza ultima si aggrappa allo sport, dove un vincente di oggi può ricordarci le sensazioni delle passate magnifiche sorti. Ecco allora la politichetta che inneggia unanime al winner e il giornalettismo che titola “orgoglio italiano”, “il suo esempio aiuta la società”, “il volto migliore”.

Sinner è un grande talentuoso campione, da celebrare come tennista, ma viene presentato anche come un eroe civile, nonostante sia un “peccatore” con la residenza fiscale a Montecarlo. La qual cosa è coerente con la pedagogia meloniana che definisce le tasse un “pizzo di Stato”, non altrettanto con chi è consapevole che l’erosione del welfare universalistico deriva proprio da una scelta politica, non da una “oggettiva” crisi fiscale dello Stato.

Certo, Sinner è in ampia compagnia: molti dei pochi che possono permetterselo frequentano i paradisi fiscali, spostano la residenza fiscale della loro società all’estero (compreso un candidato alla presidenza di Confindustria). Infatti, mentre moltissimi italiani arrancano, alcuni italiani diventano ancora più ricchi.

I rivoluzionari delle Tredici colonie americane dicevano “No taxation without representation”, oggi varrebbe ancora di più l’inverso: “nessuna rappresentanza e rappresentazione senza tassazione“.