Non esistono civiltà senza musica. Non sono mai esistite. La musica è un’attività universale della nostra specie. Se però procediamo poco oltre questa constatazione, ci accorgiamo che tra le musiche praticate dalle diverse civiltà sembra esserci ben poco in comune. Da un luogo del mondo all’altro, e da un ambito sociale all’altro, non cambiano solo le regole (ritmo, scale, polifonia, etc.) e gli oggetti della musica (strumenti, modi di emissione della voce, etc.); cambiano anche, e prima di tutto, i contesti e le motivazioni del far musica (celebrativi, lavorativi, religiosi, di puro intrattenimento, etc.). Studiare la diversità musicale è compito dell’antropologia, e in particolare dell’etnomusicologia. Studiare la diversità musicale è un ottimo antidoto contro il senso di superiorità dell’Occidente, contro l’etnocentrismo e contro il razzismo.
Ma davvero dobbiamo rassegnarci a prendere atto esclusivamente della diversità?
Se, come ci insegnano i biologi e i genetisti, siamo un’unica specie e le razze non esistono, allora non possiamo sfuggire a una domanda: qual è il nucleo universale della musica? Ovvero: qual è la componente della musica che tutti gli esseri umani condividono, prima di manipolarla nei modi più diversi a seconda dei contesti socio-culturali? Per trovare la risposta a questa domanda, non si può che partire dalla teoria dell’evoluzione.
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