Intervento di Giancarlo Straini al convegno del 10 maggio 2023 presso l’Università di Parma “Il tempo di Aldo Moro, negli sguardi di un magistrato e scrittore, di un politico, di un sindacalista e di uno storico, a 45 anni dall’omicidio dello statista” (scarica il pdf).
[1. memoria e contesti]
Nel 1978 lavoravo come operaio in una fabbrica milanese di vernici, la Max Meyer. Proverò a illustrarvi il punto di vista di quei lavoratori e di molti altri lavoratori sindacalizzati con cui ero in contatto. L’oggettività assoluta è impossibile, ma ci si può avvicinare un po’ avendo coscienza dei limiti dei propri punti di vista, che dichiaro in premessa.
Ho avuto una presenza non marginale nel movimento sindacale, soprattutto nella sinistra del sindacato, e ho conosciuto moltissime persone. Solo una di queste mi destò qualche sospetto per alcune sue affermazioni ambigue e dopo qualche settimana seppi che era stato arrestato per banda armata. Può darsi che questa mia scarsità di contatti con gli ambienti del terrorismo di sinistra sia dipesa dalla mia lontananza fisica e culturale da quelli che, nel linguaggio dell’epoca, indicavamo come “movimentisti” e “sostitutisti” (cioè Lotta continua, Potere operaio, l’Autonomia) e dalla mia vicinanza agli ambienti della sinistra socialista, comunista e di Avanguardia operaia.
Inoltre, le scienze cognitive ci insegnano che il ricordo non è un semplice accesso a un deposito statico; la memoria è continua ricostruzione e c’è sempre il rischio, non solo di dimenticare, ma anche di ricostruire la memoria con falsi ricordi, anche in buona fede. In aggiunta, il significato di alcune parole cambia nel tempo, quindi è necessario contestualizzarle, soprattutto se si parla di eventi lontani.
Faccio subito un esempio che mi servirà per quello che dirò tra poco. Il termine “politica” nella lingua italiana è molto polisemico. In inglese si può tradurre con polity (cioè il sistema politico, la strategia, l’identità, la rappresentanza, la grande politica, quella con la P maiuscola); si può tradurre anche con politics (cioè le dinamiche politiciste tra i partiti), e con policy (cioè le norme per gestire e amministrare, spesso intese come scelta solo tecnica).
[2. il riflusso]
Per descrivere il clima politico di fine anni ‘70 dobbiamo innanzi tutto tenere presente che il significante “politica” aveva un significato diverso. Oggi con il termine “politica” si intendono le dinamiche politiciste tra i partiti, le alleanze, gli schieramenti, o la gestione tecnica, ma quasi mai il sistema politico, perché there is no alternative al sistema. A fine anni ‘70 c’era ancora la ricerca dell’alternativa. Anzi, era questa la centralità, soprattutto per i lavoratori sindacalizzati e politicizzati, che si consideravano i soggetti del cambiamento, anche se aderivano a sindacati diversi e votavano partiti diversi.
Certo, il “riflusso” era già cominciato, erano finiti quelli che gli storici chiamano i magnifici trent’anni (tra la fine della seconda guerra mondiale e la stagflazione degli anni ‘70), cioè il periodo in cui c’era stata una riduzione delle disuguaglianze senza precedenti nella storia. L’egemonia del pensiero socialista nei trenta gloriosi aveva raggiunto il suo culmine ma non era riuscita a gestire i suoi successi e era entrata in crisi.
Il pensiero debole e postmoderno era diventato l’ideologia del riflusso; giustificava le ironie nichiliste del movimento del ‘77, degli indiani metropolitani. Il postmodernismo criticava tutto ma finiva per accettare tutto (sia pure debolmente), anche la montante egemonia del pensiero neoliberista. Nel 1979 sarebbe arrivato il governo di Margaret Thatcher, nel 1981 quello di Ronald Reagan. Il caso Moro (cioè i racconti sull’assassinio della scorta, sul rapimento e poi sull’uccisione di Aldo Moro) si inserisce in questo passaggio di fase e lo accelera.
La centralità del lavoro sarà sostituita dalla postmoderna centralità del consumo, dalla critica dell’idea prometeica di progresso, da un ritorno a un giusnaturalismo romantico. I lavoratori sindacalizzati hanno resistito molto più a lungo di altri settori socio-culturali a questo cambiamento dello Zeitgeist, dello spirito del tempo; arretreranno anch’essi, ma relativamente in buon ordine, diversamente dagli sbandamenti politicisti dei partiti (e tuttora qualche traccia di politica sistemica resta quasi solo nei sindacati).
[3. pedagogie]
Il movimento del 1968 esplose quasi ovunque nel mondo per contestare i sistemi di potere e le loro ideologie; in forme molto diverse, detto mooolto schematicamente, c’erano i fricchettoni e i rivoluzionari, tra questi quelli che volevano spingere partiti e sindacati a una lotta più intensa per obiettivi più ambiziosi ma nel quadro di una “linea di massa”, e quelli che nel linguaggio dell’epoca erano denominati “sostitutisti”, perché non adottavano una pedagogia circolare, ma si consideravano i “salvatori” degli oppressi.
I sindacati, più dei partiti, riuscirono a assorbire le spinte di quelli che li criticavano (anche aspramente) ma si fondavano su una linea di massa. Le BR e le altre formazioni “sostitutiste”, rivendicando radici rivoluzionarie e proletarie, aspiravano a radicarsi nelle fabbriche ma riuscirono a svilupparsi solo dopo il riflusso, dopo il movimento del ‘77 che predicava il rifiuto del lavoro e l’operaio “sociale”, il ribelle dei ghetti urbani.
Prima del caso Moro le Brigate rosse non riscuotevano simpatie tra i lavoratori sindacalizzati, non erano neanche viste come “compagni che sbagliano”, erano però sottovalutate. Per fare solo un esempio: anche alla Max Meyer circolava una infelice battuta per cui Tizio o Caio non dovevano preoccuparsi “perché le Brigate rosse sparavano alle gambe e non ai coglioni”. Dopo il caso Moro la percezione cambiò profondamente.
Le Brigate Rosse furono percepite come un grave pericolo e considerate nel quadro della strategia della tensione. Si rafforzò l’idea dell’etero-direzione delle BR, con spiegazioni semplicistiche (perché piene di infiltrati) per alcuni, o più elaborate per altri (lasciate agire perché utili per una involuzione autoritaria). L’omicidio di Guido Rossa nel 1979 confermò la percezione maturata nel caso Moro che i brigatisti erano pericolosi nemici del movimento dei lavoratori; quanto meno oggettivamente, se non anche soggettivamente.
[4. scioperi e cortei]
La chiave di lettura del caso Moro usata da questi lavoratori sindacalizzati nel 1978 era, dunque, fortemente politica sistemica. Aldo Moro non era certamente amato perché era identificato come esponente del regime democristiano; si facevano poche distinzioni: la DC frenava il cambiamento, con tattiche subdole (la strategia del logoramento) o brutali (le bombe fasciste). Il compromesso storico era visto quanto meno con diffidenza; anche chi lo sosteneva lo presentava come una mossa tattica per fermare la strategia della tensione. C’era diffidenza anche per la “svolta dell’EUR” del febbraio 1978, che accettava la moderazione salariale e la “politica dei due tempi”.
Lo stesso giorno del rapimento, giovedì 16 marzo, Cgil-Cisl-Uil indissero uno sciopero generale così motivato: “difesa della democrazia e della costituzione, salvaguardia del libero svolgimento della vita sociale e politica e dei diritti dei lavoratori e dei cittadini”. Con una grande partecipazione allo sciopero e ai cortei; c’era anche indignazione morale ma soprattutto consapevolezza della necessità di una risposta politica, non solo contro le BR.
Ancora più numerosa la partecipazione a scioperi e cortei martedì 9 maggio, dopo il ritrovamento del cadavere di Moro. Alla Max Meyer organizzammo anche un corteo interno (una “spazzolata” in gergo sindacale) per invitare eventuali crumiri a partecipare allo sciopero. Non incontrammo nessuno, tranne il capo del personale che, probabilmente per ribadire il suo ruolo, ci invitò delicatamente “a non fare casini” ma esprimendo “comprensione” per la spazzolata.
Anche tra i dirigenti aziendali di allora era diffusa (un po’ accettata, un po’ subita) l’idea che la fabbrica appartenesse anche ai lavoratori, che in quanto “comproprietari” si preoccupavano non solo di rivendicare miglioramenti per se stessi, ma anche l’efficienza e la qualità della fabbrica e del suo rapporto con il quartiere circostante. Come diceva Trentin: da sfruttati a produttori. Ciò sembrerà strano ai giovani lavoratori precari di oggi, addestrati da capetti arroganti a saltellare da un lavoretto all’altro.
Ricordo che in quell’anno mi capitò di intervenire in una assemblea della Max Meyer per denunciare che un errore di lavorazione era stato scaricato nelle fogne; la direzione si impegnò a esercitare un maggiore controllo per evitare il ripetersi di “incidenti” simili, in realtà abbastanza frequenti. Allora c’erano le condizioni politiche e legali (l’art. 18) per esercitare anche un controllo ambientalista sul rapporto della fabbrica con il territorio circostante; oggi molte meno, soprattutto per un lavoratore precario.
[5. antistatalismi]
Come dicevo, il dibattito politico sistemico era molto ampio e diffuso, ovviamente con diversi livelli di approfondimento. Lo slogan di Lotta continua “né con le BR né con lo Stato” era ampiamente criticato perché non si poteva restare neutrali; alcuni lo riformulavano “contro le BR e contro lo Stato” intendendo per Stato il regime democristiano. Con poca consapevolezza che i diritti della cittadinanza sono garantiti (sia pure lottando) principalmente da questo livello istituzionale, dallo Stato-nazione.
Vale la pena fare qualche considerazione sull’antistatalismo, che in Italia ha radici profonde: un antistatalismo che si basa sul “particulare” guicciardiniano e sul familismo amorale, su un Risorgimento senza riforma agraria e con scarsa partecipazione popolare, sulla presenza dello Stato pontificio e sul ritardo della formazione dello Stato nazionale, su una industrializzazione tardiva e una classe dirigente poco responsabile e lungimirante. L’elitismo e il sovversivismo della classe dominante hanno influenzato anche il sostitutismo e il sovversivismo speculare dei dominati.
L’antistatalismo è stato alimentato anche dalla “democrazia bloccata”. La geopolitica (e le specificità italiane) hanno imposto un regime centrato sull’occupazione dello Stato da parte della DC; non c’è stata alternanza di governo (caso unico nell’Occidente); quindi lo Stato non è stato percepito come espressione della nazione ma come “regime democristiano”. Percezione rafforzata, prima, dall’uso brutale della Celere nella repressione delle manifestazioni politiche e sindacali, poi dalla strategia della tensione (narrata cautamente come trame oscure o più esplicitamente come bombe fasciste e regia democristiana). La violenza politica era condannata, ma c’era da più parti una pedagogia che la legittimava, o almeno la faceva considerare difficilmente eliminabile.
Il dibattito su fermezza o trattativa era vissuto in fabbrica prevalentemente come dinamica tra partiti e correnti sindacali (la segreteria nazionale della Cgil ammise l’”impossibilità di una presa di posizione” per ragioni di principio e politiche). C’era molta confusione e intreccio complesso di dinamiche, tra partiti e tra personaggi influenti, per esempio tra Pier Paolo Pasolini che denunciava il “fascismo democristiano” e il partigiano Giorgio Amendola che si scagliava contro le “debolezze” della Cgil verso l’estremismo.
[6. il vincolo internazionale]
Concludo con questa schematica osservazione. Il “vincolo internazionale” imposto dalla guerra fredda impedì sia l’ipotesi di Moro di replicare la cauta e logorante apertura degli anni ‘60 verso il centro-sinistra, sia quella di Berlinguer di compromesso storico senza una precedente esplicita Bad Godesberg.
Craxi si propose di rispettare il vincolo internazionale proponendo un’alternanza che manteneva la conventio ad excludendum nei confronti del PCI, ma il blocco politico-sociale che aveva ingessato e svuotato le (sia pure contraddittorie) spinte al rinnovamento si era ulteriormente rafforzato. Poi il crollo del muro e la cosiddetta “seconda repubblica”. La sacralizzazione di Aldo Moro, e parallelamente di Enrico Berlinguer, quali eroi sfortunati del dialogo ha svolto una funzione consolatoria, che (come tutte le sacralizzazioni) ha fissato una narrazione ostacolando una riflessione laica e critica sul retroterra politico sistemico.
Il tentativo di salvaguardare lo Stato con la politica della fermezza è fallito; anche le esequie di Moro sono state celebrate non in Italia ma a San Giovanni in Laterano, territorio del Vaticano. L’antistatalismo dei lavoratori sindacalizzati, ormai privo di una visione del modo di tipo socialista, è scivolato verso il populismo. Si è rafforzato l’antistatalismo basato sul principio di sussidiarietà della dottrina sociale cattolica, che considera “artificiale” lo Stato-nazione e naturali solo la famiglia e le comunità locali; questo antistatalismo si è fuso con il federalismo divisivo della Lega (sussidiarietà verticale, devolution) e con il neoliberismo che ha scaricato il welfare universalistico sul “terzo settore” (sussidiarietà orizzontale, privatizzazioni), fino all’attuale prospettiva dell’autonomia differenziata.
Credo che neanche il cattolico Aldo Moro, se fosse scampato alle “trame oscure” e alle BR, avrebbe apprezzato questa prospettiva.