Intersezionalità è un termine recente, usato (forse anche un po’ abusato) per descrivere la concomitante sovrapposizione di diverse discriminazioni.
Il termine è stato utilizzato per la prima volta nel 1989 dalla sociologa e giurista Kimberlé Crenshaw, per sostenere che essere donna e nera non comporta la semplice addizione di due discriminazioni, sessista e razziale, ma una “moltiplicazione” di questi fattori che si potenziano incrociandosi (intersecting).
Il concetto non è del tutto nuovo. Per esempio, nei primi anni ‘70, con le lotte sindacali per la salute e con Medicina Democratica, si affermò il principio che i fattori di rischio dovessero essere considerati non separatamente ma nel loro insieme, cioè che la salute dipendesse complessivemente dall’ambiente (poi ciò divenne patrimonio dei movimenti ambientalisti che si costituirono, e non solo).
Comunque, il successo del termine intersezionalità indica che si sta diffondendo l’esigenza di avere anche una visione di insieme, perché “i comportamenti discriminatori assumono molte forme, ma tutte implicano una qualche forma di esclusione o rifiuto” (ONU) e chi ha più potere spesso opprime chi ne ha meno.
È indispensabile approfondire le singole tematiche (o assi, faglie, contraddizioni), cioè le discriminazioni relative alla razza, al genere, all’orientamento sessuale, filosofico/religioso, politico, alla classe sociale, al territorio, al gruppo sociale, al reddito, all’istruzione, alla lingua, all’abilità, all’età, alla salute, ecc.
Ma se si usa una unica chiave interpretativa si rischia una visione astratta e schematica: un proletario oppresso da un capitalista può opprimere a sua volta le donne; una lesbica bianca può discriminare i neri, ecc.
Capire come possono incrociarsi le varie forme di discriminazione (i vari assi di oppressione, le varie contraddizioni) è meno semplice, ma può consentirci di capire meglio, e combattere meglio, le disuguaglianze, che spesso generano le discriminazioni, che poi si traducono nell’oppressione del “diverso”, del più debole; può consentirci di capirle e combatterle meglio anche quando le asimmetrie di potere sono mescolate, nascoste nelle pieghe delle relazioni sociali.
Un atteggiamento di questo tipo ci aiuta a non essere dogmatici, tifosi sempliciotti, ma a valutare ogni azione nel suo contesto, nelle sue ambivalenze (per es. considerare il burkini come primo passo o come ulteriore gabbia non deve dipendere da un astratto pre-giudizio ma da un esame concreto del contesto).
Il nostro punto fermo – il motivo della nostra esistenza come ArciAtea – è lottare per l’autodeterminazione dell’umanità, per la prospettiva razionale ed egualitaria del cantiere aperto dell’Illuminismo, contro l’autoritarismo dei dogmatici e contro il relativismo assoluto che ci porta verso i ghetti multiculturalisti, che consolidano le asimmetrie di potere, le discriminazioni e le oppressioni, all’interno delle singole comunità.
Ma sappiamo che anche una prospettiva universalistica può nascondere forme di oppressione (colonialismo, eurocentrismo, assimilazionismo, ecc.).
Noi di ArciAtea siamo rigorosamente atei e laici, ma intersezionali, cioè pluralisti e alla ricerca continua delle sempre provvisorie verità, senza dogmatismi e “Verità” metafisiche.
Vogliamo rappresentare gli atei, ma sappiamo anche, per esempio, che un ateo che vive in periferia ha un’aspettativa di vita inferiore a quella di un ateo che vive in centro; combattiamo le religioni, ma tra un musulmano torturato e un ateo torturatore simpatizziamo per il primo.
Insomma, ci occupiamo di ateismo e laicità perché li riteniamo aspetti importanti per combattere disuguaglianze, discriminazioni e oppressioni; non intendiamo fornire una teoria compiuta, indicando un modello con le contraddizioni principali, quelle secondarie e quelle da non considerare (come se una non-comunicazione non fosse anch’essa una comunicazione); vogliamo “solo” fornire qualche contributo per una visione critica, per meglio lottare, insieme, contro tutte le forme di oppressione.