Due parole per presentare il seminario prima di dare la parola agli autorevoli relatori.
Parleremo della stanza del silenzio, necessaria soprattutto negli ospedali, perché è ormai ampiamente riconosciuto che la salute dipende anche dal benessere psicologico, relazionale, spirituale dell’individuo.
La stanza del silenzio non è solo un luogo accogliente, privo di riferimenti religiosi per rispettare i riti e le tradizioni proprie di ogni culto,
La stanza del silenzio serve per fermarsi, pensare, raccogliersi, rigenerarsi, meditare o pregare, per elaborare la gioia e la sofferenza, per metabolizzare nuove emozioni, per sedimentare scelte difficili in nuovi contesti, per affrontare speranze e paure.
Ma la stanza del silenzio, di cui c’è bisogno negli ospedali e in altre “istituzioni“ e luoghi aperti al pubblico, è molto di più di un semplice luogo: è un luogo che costruisce relazioni, è un hardware dotato di un suo software, è un progetto politico inclusivo, è educazione alla democrazia, al rispetto, al dialogo.
La stanza del silenzio è anche uno strumento di inclusione, il suo prototipo è la “camera di meditazione” predisposta dal segretario delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld per i dipendenti ONU a New York nel 1954. Da allora i luoghi del silenzio sono apparsi in ospedali, cimiteri, aeroporti, alberghi, università, carceri, di molti Paesi. Da allora si è consolidata l’idea di una stanza per dialogare in silenzio, per incontrare l’altro, un luogo interculturale, un antidoto alle divisioni e ai muri dove chiunque possa esprimere liberamente il suo pensiero e la sua fede, anche gli atei e gli agnostici.
Per me, la spiritualità atea è il nostro rapporto, dotato di senso, con l’indefinito; è lo stato d’animo e la sensibilità particolare, sospesa, irriducibile, non del tutto razionalizzabile, che si può provare di fronte a un’opera artistica, a emozioni non metabolizzate.
In altri termini esiste una spiritualità che si esprime in varie forme, che include le varie spiritualità religiose e le altrettanto varie spiritualità laiche. Ma, se le forme espressive sono diverse, i bisogni che le sottendono sono spesso simili e gli strumenti talvolta unificabili.
La stanza del silenzio serve appunto a questo.
Non apprezziamo un multiculturalismo che concepisce la società come somma di ghetti, appartenenze rigide, incomunicanti con l’esterno e uniformanti all’interno, talvolta gestite da élite che preferiscono cristallizzare le differenze per consolidare il loro potere sulla comunità; un multiculturalismo che riduce l’intervento pubblico alla funzione di gestione del conflitto tra comunità, anche a scapito della sostanziale libertà dei singoli.
Il confronto tra culture, concezioni del mondo, stili di vita, ideologie diverse, per non diventare scontro settario, deve muoversi su un sentiero stretto tra omogeneizzazione forzata e formazione di ghetti, tra una anche inconsapevole riproposizione della superiorità dell’Occidente e un asociale “pluralismo” dell’indifferenza e dell’abbandono.