Luciana Castellina ha criticato, su il Manifesto del 18/8/20, alcune affermazioni di Fausto Bertinotti sull’ecologismo. Non ci interessa intervenire sulla polemica ma solo commentare un aspetto delle affermazioni di Castellina, da un punto di vista (riteniamo) laico e razionalista.
Innanzi tutto concordiamo sulla constatazione che non siamo tutti uguali, neanche per le conseguenze ambientali (“non saremo tutti vittime alla pari”), perché anche in questo caso ci sono oppressori ed oppressi.

Ha ragione Castellina a considerare inappropriato il termine “antropocene” perché rinvia a una generica umanità senza distinguere le diverse responsabilità e le diverse conseguenze (di classe) subite.
ArciAtea ha dichiarato inopportuno, per lo stesso motivo, l’uso apocalittico del termine “salvare” al posto di “cambiare”.
In un nostro incontro, Monti e Redi, parlando di genomica sociale, ci hanno ricordato, tra l’altro, che la vita media di un operaio è cinque anni minore di quella di un imprenditore.
Inoltre ArciAtea, diversamente da tanti “amici di Bertinotti”, non ha trovato una “svolta epocale” nella Laudato si’, bensì la riproposizione esplicita che, essendo la natura (come la nostra vita, la nostra sessualità, ecc.) un dono di dio, non sarebbe nella nostra disponibilità. Tanti laudatori di Bergoglio sembrano non accorgersi che magnificare l’enciclica per quello che è un banale invito a un uso prudente e razionale delle risorse (raccontato con qualche frase ad effetto) implica anche aderire alla condanna dell’aborto, dell’eutanasia, delle “deviazioni” sessuali, com’è esplicitamente dichiarato nella premessa della Laudato si’.

Concordiamo ancora con Castellina quando rileva che oggi una classe lavoratrice frammentata non riesce a rappresentare immediatamente il “soggetto antagonista” e che i movimenti monotematici (single issue) sono necessari ma non sufficienti.
Ci sembra però meno convincente e troppo astratta quando afferma che “il green capitalism non è possibile […] perché la rivoluzione ecologica […] presuppone la fine della centralità del […] mercato”.
La società capitalistica in cui concretamente viviamo non ha certo risolto le contraddizioni, anzi le ha riprodotte e ne ha create di nuove, ma ha anche dimostrato di saper convivere con i problemi evidenziati dall’ambientalismo, dal femminismo, ecc.; talvolta addirittura di saperli utilizzare (sussumere, direbbe Marx).

Se si identifica – se si sovrappone completamente – lotta ambientalista e lotta anticapitalista (analogamente, se si identifica patriarcato e capitalismo, ecc.) si rischia di concludere che, “se si è coerenti”, lottare per l’ambiente risolverebbe anche i diritti sociali dei lavoratori, o viceversa che lottare contro il capitalismo risolverebbe necessariamente anche i problemi ambientali (analogamente che la lotta al patriarcato è immediatamente anticapitalista, o viceversa).
Si rischia, cioè, di fare riferimento a un principio astratto, metafisico, idealistico, iperuranico, a una religione politica; di appiattire l’analisi sulla sola dimensione delle “essenze” e dei simboli; di rinviare a una palingenesi da tifosi (attesa del superamento tout court del capitalismo) negando o svalutando la possibilità di risultati “riformatori” intermedi (le casematte di Gramsci); si rischia di riproporre nei fatti movimenti “monotematici”, incapaci di accumulare forze intorno a una visione unitaria del mondo.

Ci sembra invece più convincente l’uso del concetto di intersezionalità (anche se talvolta un po’ abusato), perché non appiattisce l’analisi, non è monodimensionale, ma indica un grappolo di oppressioni, connesse tra loro ma distinte (l’immagine di grappolo suggerisce la contiguità ma non l’identità, né l’autonomia assoluta, dei diversi piani in cui si esprimono le oppressioni).
Quindi bisogna saper distinguere chi opprime e chi è oppresso nei rapporti di lavoro, ambientali, di genere, etnici, ecc. ecc., concretamente ma con una visione del mondo unitaria, egualitaria, laica.