La storia è un processo, contraddittorio e privo di finalità trascendenti.
Apprezziamo la critica dell’assolutismo del liberale Locke anche se ammetteva la schiavitù, la separazione dei poteri di Montesquieu anche se la giustificava nei “climi caldi”, la libertà degli illuministi anche se era riservata inizialmente ai soli possidenti maschi bianchi. Sappiamo che l’Illuminismo è un cantiere aperto, un progetto tuttora incompiuto; sappiamo che interpretare la storia alla luce dell’etica attuale è sbagliato.

Quindi bisogna “contestualizzare” ma non confondere la storia – che richiede ricerca e rigore filologico, mettere il passato a distanza di sicurezza per analizzarlo con freddezza – con la gestione politica della memoria e dell’identità di una comunità.

I monumenti, la toponomastica, le festività, le celebrazioni, hanno a che fare con il passato ma esprimono soprattutto un’idea di futuro, cioè – come sostiene la semiotica Patrizia Violi – «rapporti di potere, logiche di controllo sociale, strategie identitarie, progetti di egemonia politica: impossibile separare le politiche della memoria dalla politica in generale […] la memoria non è fedele trascrizione del passato, ma sua continua lettura e interpretazione, può anche succedere che le memorie siano riscritte e la tradizione inventata».

Non ci piace l’iconoclastia, ma ancora meno apprezziamo chi denuncia gli orrori del razzismo e del sessismo relegandoli nel passato, senza vederne le cause e tanto meno le soluzioni, la persistenza o addirittura la riproposizione implicita tramite monumenti e celebrazioni.

Quindi, di fronte a un monumento (di Montanelli o di chiunque altro), dobbiamo chiederci cosa ci dice oggi, e quale domani ci propone.
Poi, caso per caso, si dovrà valutare se è più opportuno abbattere una statua, trasferirla in un museo, aggiungervi una descrizione, bilanciarne l’immagine con un’altra di significato diverso. Ma non raccontateci che la statua è muta.