Che fare se la laicità non piace? Si deve innanzi tutto distinguerla in una laicità buona e una cattiva, poi insinuare che i laici originari lo sono nel senso cattivo; se questa battaglia culturale funziona si può passare dall’insinuazione all’accusa esplicita e contrapporre apertamente la propria variante buona; poi, avendone rovesciato il significato, appropriarsi dello stesso termine e infine dichiararsi laici, quelli “veri”, naturalmente.
In altri termini, è in corso una battaglia semantica, per l’egemonia culturale, che usa lo stesso termine “laicità“ contro la laicità dello Stato.
La chiesa cattolica – in particolare i gesuiti – ha una grande capacità di mantenere la sua strategia (il monopolio dei beni di salvezza) adattandosi tatticamente alle circostanze. Se non riesce più a imporre una sua idea (per secoli è bastato ricordare che si poteva “fare la fine delle castagne”) agisce sul significato delle parole, lo deforma un po’ alla volta fino a rovesciarlo.
Le grandi narrazioni, gli “ismi”, sono stati giustamente criticati, perché nel secolo scorso abbiamo potuto vedere che negli “stampi” inventati dalle religioni sono state “colate” anche ideologie autoritarie, che hanno prodotto religioni politiche, culti della personalità, missionarie esportazioni della “democrazia”.
Certo, anche il laicismo, astrattamente, può essere usato come un’arma settaria per opprimere; ma anche la lotta contro gli “ismi” può diventare, concretamente, un modo per adattarsi all’ideologia dominante, come è avvenuto con il postmodernismo, con il “pensiero debole” che ci ha fatto accettare, più o meno consapevolmente, i pensieri forti di chi una ideologia forte ce l’ha e la usa per esercitare il suo potere.
Chi non lotta ha già perso, lascia campo libero alle idee degli altri, alla loro egemonia culturale, perché i comportamento concreti non sono del tutto separabili dalla visione del mondo; la democrazia è anche un modo di lottare, con reciproco rispetto, tra chi ha idee diverse.
Quindi per essere laici bisogna essere anche laicisti, cioè avere la visione del mondo della laicità come riferimento.
L’idea moderna di laicità è nata dopo le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa, affermando che bisogna governare lo Stato come se dio non fosse dato (etsi deus non daretur), sulla base non di principi metafisici, “esterni” all’umanità, ma della sua autodeterminazione.
Quindi deve esserci la più completa libertà delle religioni, ma queste non devono intervenire in quanto tali nella sfera pubblica: la sovranità appartiene al popolo, non discende da entità metafisiche.
Da fine anni ‘70, però, il processo di secolarizzazione (laïcité=secularism) che sembrava inarrestabile, ha visto un ritorno delle religioni nella sfera politica, in forme diverse (dal fondamentalismo alle “religioni a bassa intensità”), nonostante il calo in Europa della partecipazione ai riti.
Intellettuali come Habermas hanno parlato di postsecolarizzazione e hanno ri-legittimato la loro presenza nella sfera pubblica, mai cessata del tutto ma reputata un residuo del passato.
Anche gli atei devoti dell’élite al potere hanno riaccettato e riutilizzato l’autorità morale della chiesa – come non notare il concomitante aumento delle disuguaglianze! – e hanno riconosciuto ciò che la chiesa rivendicava da sempre, cioè che l’umanità deve essere eterodiretta, non può governarsi da sola.
Anche in Francia, nella patria della laicità “cattiva”, Sarkozy ha aggettivato il termine con “positiva”, cioè dichiarando implicitamente che dobbiamo evitare la laicità negativa. Figuriamoci in Italia, dove si inaugurano i ponti con la benedizione del vescovo, che poi celebra i riti anche quando crollano: da noi la laicità è diventata sinonimo di moderazione, di toni pacati, nel migliore dei casi pluralismo ridotto a semplice tolleranza multiculturalista, equidistante tra i vetero-clericali e gli aridi-laicisti.
C’è proprio bisogno, anche sul piano semantico, di una militanza laica e atea, e di un moderno anticlericalismo.