La ricorrenza del 9 dicembre ci consente di celebrare l’adozione nel 1905 della legge sulla separazione tra la chiesa e lo Stato francese, che ha abolito il servizio pubblico dei culti riconosciuti – cattolicesimo, luteranesimo, calvinismo, giudaismo, i cui ministri erano pagati dallo Stato –, sostituito da un sistema di diritto privato (associations cultuelles).
In Francia il principio costituzionale di laicità si è consolidato nelle battaglie anticlericali del XIX secolo, è tuttora rispettato dai partiti (anche di destra) ed è ampiamente riconosciuto dalla grande maggioranza dei cittadini francesi.
Il richiamo a celebrare la “Festa della Laicità” dopo gli attentati degli estremisti islamici è stato criticato da alcuni come “evangelizzazione laica”, come imposizione di una concezione laicista.
Dobbiamo certamente sempre interrogarci sui rischi del settarismo, che ha alimentato guerre di religione, crociate, torture e roghi di “eretici”, ma anche religioni politiche e culti della personalità (nazionalismo, fascismo, stalinismo). Non dobbiamo però cadere nell’errore speculare di una disimpegnata “neutralità“.
Chi sostiene che “dobbiamo essere laici tutto l’anno, non solo il 9 dicembre” (vale anche per l’8 marzo o il 1’ maggio) mostra di non capire l’importanza delle celebrazioni pubbliche per la conquista dell’egemonia culturale; diversamente dalla chiesa cattolica che è riuscita a farsi riconoscere dallo Stato italiano “laico”, come festività nazionale, anche una ricorrenza recente: l’immacolata concezione proclamata da Pio IX l’8 dicembre 1854.
Alcuni sono convinti che la secolarizzazione (il francese laïcité si traduce in inglese con secularism) avanzi inesorabilmente in tutto il mondo. Questa ottimistica rappresentazione può indurre alla passività (a sedersi sulla riva del fiume in attesa del cadavere dell’avversario) o comunque a sottovalutare la necessità di un intervento attivo.
Altri, invece (e noi tra questi), ritengono che dagli anni ‘80 sia in corso una “rivincita di dio” (Gilles Kepel), forse collegata all’aumento delle disuguaglianze.
Certamente si sta riducendo la partecipazione ai culti (in particolare dei giovani) e sta aumentando la divaricazione tra fede e religione, ma è sbagliato non cogliere la diffusione di nuove forme, dai fondamentalismi (non solo islamici) alle religioni a bassa intensità (new age, appartenenza senza credenza, ecc.).
La giusta critica alle visioni positivistiche ed escatologiche (le magnifiche sorti e progressive, il sol dell’avvenire) si è però rovesciata nel pensiero debole e postmoderno, che ha negato ogni fondamento ed ogni valore, che ha anche indebolito la coesione sociale e ha spinto le élite (gli atei devoti) a rilanciare la funzione di controllo sociale svolta dalle religioni.
La laicità dovrebbe significare che le religioni non devono occupare la sfera pubblica (etsi deus non daretur), ma il termine sta subendo uno slittamento di significato: vedi la “laicità positiva” di Sarkozy; oppure Habermas che ha rilegittimato con il suo concetto di postsecolarizzazione la presenza delle religioni nella sfera pubblica.
Serve quindi una militanza laica e un moderno anticlericalismo, certamente pluralista, rispettoso e non settario, ma determinato nella lotta per la laicità, perché chi non lotta ha già perso.