Laura Santi, nel suo lucido intervento ha puntato dritto al cuore della questione, e cioè che poter disporre di una ‘Libera Uscita’, cioè di un ‘bottone da pigiare’ all’occorrenza, consentirebbe a tante persone come lei, o con patologie ancora più gravi, non solo di accomiatarsi dalla vita al momento opportuno, ma di vivere molto più serenamente la propria malattia.
Vorrei ribadire ancora una volta le sue parole:
“La progressione della malattia non è arginabile, ma io non voglio morire oggi, voglio sapere di poter morire. Non sono depressa, al contrario sono tenacemente attaccata alla vita ma ogni scelta è personale. Sapere di avere un tasto da poter pigiare ti fa anche dire oggi no, forse anche domani, però domani voglio averlo quel tasto!”
Nel suo blog “La vita possibile” ho trovato un’altra frase che mi pare illuminante che dice:
“Sono le persone fragili, quelle con disabilità o patologie progressive e incurabili, a vivere certe tematiche sulla propria pelle, in netto anticipo rispetto alle tendenze degli anni a venire.”
Ed è per questo – aggiungo io – che dobbiamo essere loro molto grati, quando ci offrono le loro riflessioni anticipatrici.
Dopo un intervento concreto come quello di Laura, non è facile filosofare sulle ragioni che rendono così complicata la ‘battaglia infinita’ per la Libertà nel Fine Vita.
Per questo ricorrerò all’aiuto di citazioni autorevoli, focalizzando l’attenzione solo su alcune tappe del lungo percorso di affermazione della sovranità su di sè alla fine della vita, di cui la Campagna Referendaria per la parziale abrogazione art. 579 del c.p. promossa dall’Associazione Luca Coscioni rappresenta un esempio emblematico, condiviso anche dall’Associazione Libera Uscita, che già nel 2004 aveva appoggiato un disegno di Legge, del Senatore Battisti con cui si chiedevano modifiche sugli articoli 580 e 579 del C.P.
Ricordo che la campagna referendaria, che a tutt’oggi ha già raccolto la metà delle 500.000 firme necessarie, mira ad abrogare una parte, dell’articolo 579 del Codice Penale che verrebbe riscritto in modo da punire chi provoca la morte con il consenso dell’interessato, solo in caso di soggetti minorenni, o con infermità mentale o sottoposti a minacce e inganni.
Più precisamente l’articolo 579 modificato diventerebbe:
«Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con (—-) le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso:
1) contro una persona minore di anni diciotto;
2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
3) contro una persona il cui consenso sia stato estorto dal colpevole con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».
Per introdurre il mio contributo, che ho proposto di intitolare “Fine vita; la battaglia infinita” (il cui senso cercherò di chiarire meglio in seguito) mi avvalgo di una considerazione preliminare di Paolo Flores D’Arcais, direttore della rivista Micromega.
“Ho difficoltà a capire – dice Flores D’Aracais – il motivo per cui la ‘questione eutanasia’ sia ritenuta così difficile e controversa, perché a me sembra sia una di quelle rarissime questioni in cui, fra i cittadini c’è unanimità.
Se infatti chiediamo a chiunque: sul tuo fine vita, preferisci decidere tu o qualcun altro che non conosci, e che magari ha una visione del mondo, dei valori, o delle convinzioni opposte alle tue, non ho mai sentito nessuno dire: preferisco che sul mio fine vita decida qualcun altro, anche se la pensa all’opposto di me.”
“E visto che siamo tutti d’accordo – continua Flores d’Arcais – che sul proprio fine vita deve decidere la persona interessata, non si capisce perché sia così complicato fare una legge che, prendendo atto di questa situazione, stabilisca che sul proprio fine vita decide l’interessato, limitandosi a definire procedure per accertarsi che la decisone sia meditata, cioè non sia frutto di un momentaneo cedimento, o non sia sottoposta a soffocanti pressioni di alcun genere.”

1 – Una conquista recente

Ebbene, per cercare di indagare i motivi per cui – al contrario – sembra così complicato promulgare nel nostro Paese una legge liberale sul fine vita occorre considerare quello che ha osservato Demetrio Neri – già titolare della prima cattedra di Bioetica in Italia – e cioè che “fino a pochi decenni fa l’idea secondo cui ogni individuo adulto ha diritto al rispetto delle decisioni che assume per governare la propria vita in base ai propri valori e alla propria concezione del bene, si fermava ai margini della malattia, che continuava ad essere governata da un modello di relazione, denominato “Paternalismo Medico”, che non lasciava spazio all’autodeterminazione della persona, violando così sia la sua autonomia che la sua dignità.”
A dimostrazione di ciò vorrei proporre tre diverse affermazioni, a partire dalla più datata fino alla più recente.
La prima proposizione, riferendosi al medico, afferma: “Fa tutto con calma e competenza, nascondendo il più delle cose al paziente mentre ti occupi di lui. Dà gli ordini necessari con voce lieta e serena, distogliendo la sua attenzione da ciò che gli viene fatto. Qualche volta dovrai rimproverarlo in modo aspro e risentito, altre volte dovrai confortarlo con sollecitudine e attenzione, senza nulla rivelargli della sua presente e futura condizione.
La seconda proposizione afferma che “il celare all’ammalato la nuda verità è precipuo dovere, forse il più nobile del medico, cui spetta di vagliare ciò che il paziente debba sapere, e quanto debba essergli nascosto”.
La terza e ultima afferma invece che: “Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonchè riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.”
Ebbene, anche se pare sorprendente, fra la prima e la seconda affermazione, perfettamente sovrapponibili nel voler tenere il malato all’oscuro su tutto ciò che riguarda la sua salute, corrono quasi 2500 anni!
La prima è infatti attribuita a Erodoto nel V sec. A.C. (o meglio prima dell’Era Volgare) mentre la seconda è il testo di una sentenza della Corte d’appello di Milano del 1964, meno di 60 anni fa.
Ciò significa che solo di recente, dopo 2500 anni ininterrotti di Paternalismo Medico, si è affermato – quantomeno sul piano teorico – un drastico cambio di paradigma.
Lascerei quindi alle parole di Maurizio Mori, cofondatore trent’anni fa della Consulta di Bioetica, associazione laica di volontariato culturale che tanto ha contribuito a determinare questo cambio di paradigma presentando il primo modello di Testamento Biologico, e nel 1993 il primo documento italiano in favore dell’eutanasia, lascerei – dicevo – a Maurizio Mori il compito di descrivere sinteticamente quanto è accaduto.
“Il principio di autonomia – scrive Maurizio Mori – è divenuto uno dei nuclei fondativi dell’odierna prassi biomedica antipaternalista, che riconosce nel cittadino/paziente un soggetto attivo e responsabile in grado di assumere su di sè le decisioni che riguardano la sua salute.
Si tratta di un’ulteriore tappa di un lungo processo iniziato alcuni secoli fa che ha condotto al riconoscimento del diritto di scegliere il proprio lavoro, il luogo di residenza, il partner con cui convivere, e che oggi inizia a riguardare anche la nascita, la riproduzione e la morte.”
Una decisiva conferma del fatto che oggi questo processo di assunzione di sovranità su di sé inizia a riguardare anche la fine della vita è rintracciabile ancora nella stessa Legge Lenzi, laddove si afferma che:
“Ogni persona capace ha il diritto di rifiutare qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario e di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato anche quando la revoca comporti l’interruzione di un trattamento salvavita come la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale …
E siamo qui giunti a un punto cruciale della Legge Lenzi, che legittimando il diritto di interrompere un trattamento salvavita, ovvero il diritto di lasciarsi morire, secondo il filosofo Giovanni Fornero, autore della monumentale opera “Indisponibilità e Disponibilità della vita una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria” – su cui tornerò in seguito – avrebbe di fatto legittimato una forma di “diritto di morire”.
“Il diritto di lasciarsi morire – afferma in proposito Fornero – non può continuare ad essere spacciato come qualcosa che nulla ha a che fare con il diritto di morire.
Infatti, ammettere che nel nostro ordinamento, in concomitanza con il diritto di ricevere le cure, esiste un contestuale diritto di non curarsi e di lasciarsi morire, significa oggettivamente ammettere che esiste un diritto di rinunciare a continuare a vivere, e quindi, in omaggio alla semantica, una forma di diritto di morire.”
Tirando le somme su questa sintetica riflessione introduttiva giova sottolineare come anche nel nostro Paese si siano recentemente registrati progressi epocali sulla libertà di disporre, non solo delle proprie cure, ma anche del proprio fine vita.
Progressi che, lungi da essere ritenuti punti d’arrivo, costituiscono tappe intermedie importanti, da cui muovere verso ulteriori traguardi di libertà.

2 – Una Transazione in corso

Ho utilizzato non a caso il verbo ‘disporre’ del proprio fine vita, perché ciò mi consente di introdurre un concetto chiave, contenuto nel titolo stesso della sopracitata opera di Giovanni Fornero, quello della Disponibilità della propria vita, con cui si intende non solo la facoltà e il diritto di decidere ‘come’ vivere la propria vita. ma anche la facoltà o il diritto di decidere ‘se’ vivere o meno.
Secondo lo stesso filosofo proprio il concetto di Disponibiltà della propria vita può rappresentare un’idea-guida o uno “slogan” della campagna referendaria.
Infatti – spiega il filosofo – “in ogni epoca storica esistono idee-guida capaci di smuovere le menti, che quando diventano un fenomeno di massa, arrivano a modificare il corso della storia. Fra queste idee spicca quella di libertà, in nome della quale si sono combattute storiche battaglie che, con il tempo, hanno mutato la fisionomia della nostra civiltà.”
“Ciò premesso, sono persuaso – continua il filosofo noto allievo di Abbagnano – che tra le idee che oggi possono spingere gli animi a lottare per una sempre più ampia affermazione della libertà e dei diritti civili, vi sia quella della disponibilità della propria vita, che implica l’attribuzione alle persone, della sovranità sulle proprie scelte, di vita e di morte.”
Alla luce di questa osservazione, che condivido convintamente, mi pare che l’idea guida della Disponibilità della propria vita possa travalicare la contingenza referendaria per assurgere ad idea-guida e principio cardine dell’etica laica intesa come una famiglia di dottrine caratterizzate da un paradigma condiviso nel quale il centro è occupato dall’uomo, cui viene attribuita la capacità, un tempo riservata a Dio. di determinare il vero, il bene e il giusto.
Alla tesi della disponibilità della vita si contrappone frontalmente, in modo inconciliabile, l’opposta dottrina dell’indisponibilità della vita, secondo cui non si ha la legittima facoltà di poter decidere sull’essere o non essere della vita umana.
Una dottrina che affonda le radici in una concezione del mondo di matrice religiosa che tende a sottrarre le vicende del nascere e del morire alle scelte umane, per affidarle ad una forza superiore (la divinità, la natura, il destino, ecc…) da cui esse dipendono.
Nella configurazione del paradigma indisponibilista – spiega ancora Fornero – giocano un ruolo centrale l’idea di Dio, l’antropologia creazionista, la visione della vita umana come realtà sacra e indisponibile, l’esistenza di un piano divino insito nella natura e la necessaria conformità della legge civile con la legge morale.
Il pensiero religioso ragiona infatti sulla base dell’affermazione filosofica dell’esistenza di Dio come fondamento del mondo e della vita umana. L’uomo è una creatura, cioè un ente qualificato da una relazione di dipendenza dal Creatore e la sua dignità non si fonda sulla struttura personale della sua esistenza ma sul legame della creatura con il Creatore.
Tuttavia, e solo per il gusto di sfida dialettica, trovo intrigante notare che, a stretto rigor di logica, l’indisponibilità della propria vita non dovrebbe valer per tutti, ma solo per i battezzati
il Catechismo della Chiesa cattolica dichiara infatti solennemente nel suo paragrafo n.1269, che il battezzato, in quanto incorporato alla Chiesa non appartiene più a se stesso ma a colui che è morto e risuscitato per noi.
E se dunque è vero che il battezzato non appartiene più a se stesso, ovvero viene espropriato della sovranità su di sé nel momento del battesimo, si dovrebbe quantomeno convenire che prima di essere battezzato appartenesse a se stesso, cioè fosse sovrano di sè.
Stando così le cose il cosiddetto “sbattezzo” che molti di noi conoscono quale atto di apostasia formale, legittimato da un pronunciamento del Garante per la protezione dei dati personali nel lontano 1999, potrebbe rappresentare, oltre che un atto politico di presa di distanza da un’organizzazione ritenuta estranea ai propri valori, anche una forma di simbolica riappropriazione della originale sovranità su di sè perduta con il battesimo.
Scusandomi per l’eccentrica divagazione, che pur mi pare presenti aspetti intriganti, e tornando ai due paradigmi, non vi è dubbio che nel passato, è storicamente prevalso quello indisponibilista, che sta proprio alla base, per ammissione dello stesso legislatore nel 1930, degli articoli 579 e 580 del codice penale italiano, e quindi del tradizionale divieto di ogni forma di morte assistita.
Oggi invece, nelle nostre società occidentali, è in forte ascesa il paradigma disponibilista tanto che, storicamente e filosoficamente parlando, il nostro tempo può essere qualificato come l’Epoca della Transizione dal paradigma indisponibilista a quello disponibilista.
La fiducia nella lenta e tortuosa – ma difficilmente arrestabile – affermazione del (nuovo) paradigma disponibilista sul (vecchio) paradigma indisponibilista si basa sulla convinzione che il nuovo paradigma disponibilista rispecchi meglio la “mentalità” delle odierne società avanzate.
“La strada del diritto a impronta permissiva – puntualizza ancora Fornero – è infatti l’unica che, se da un lato consente a chi lo desidera di disporre della propria vita e di ricorrere alla morte autodeterminata, dall’altro non obbliga nessuno a comportarsi allo stesso modo. Abbandonare questa strada significherebbe tradire i valori della laicità e della democrazia liberale.”
La rapidità con cui proseguirà questa faticosa transazione nel nostro Paese potrebbe dipendere principalmente da due fattori:
1) dalla fermezza e dai toni con cui la Chiesa cattolica continuerà a contrapporre il tradizionale paradigma indisponibilista e
2) dal contributo che potranno o vorranno dare i singoli cittadini nel testimoniare e manifestare esplicitamente la propria adesione al principio di Autodeterminazione.
A conferma del fatto che l’atteggiamento della Chiesa cattolica sia cambiato nel tempo, e che quindi possa cambiare ancora, propongo qui di seguito tre diverse affermazioni espresse nell’arco dell’ultimo secolo.
Prima affermazione: “Se c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e “di diritto”, è il regime della Chiesa, perchè l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa. Deve appartenerle, perchè l’uomo è la creatura del buon Dio… e il rappresentante delle idee, del pensiero e dei diritti di Dio non è che la Chiesa.” (qui siamo nel 1938, poco più di ottant’anni fa, e questo è il pensiero di papa Pio XI rivolto ai sindacati cristiani francesi.
Seconda affermazione “In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni, anche normative, il più possibile condivise […] tenendo conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza”. (Qui siamo invece nel novembre 2017, meno di tre anni fa, alla vigilia dell’approvazione della Legga Lenzi, e questo è un Intervento di papa Francesco ial Meeting Regionale Europeo della World Medical Association contenuto in un messaggio a monsignor Paglia sul “fine vita”, messaggio che molti hanno ritenuto essere il via libera del Vaticano alla Legge Lenzi, senza il quale difficilmente avrebbe potuto essere approvata così com’è, con la contestatissima possibilità di rifiutare anche i trattamenti salvavita.
Apro solo una parentesi per segnalare in proposito il lucido contributo di Luca Lo Sapio un giovane e brillante bioeticista partenopeo autore del libro: “Bioetica laica e bioetica cattolica nell’era di papa Francesco”
Terza affermazione: “Negli hospice contemporanei, simili spesso a centri di benessere per moribondi, la preoccupazione suprema è quella di “non farli soffrire”, dimenticando il valore espiativo e redentivo della sofferenza, che non è una lesione della dignità umana, ma la conseguenza ineliminabile del peccato originale. Non c’è dignità maggiore di quella dell’uomo che affronta con coraggio e pazienza le sofferenze della morte, a immagine di Nostro Signore che, come narra il Vangelo, dopo avere assaggiato il vino misto a fiele che gli venne offerto prima della crocifissione per attenuare le sue sofferenze, non volle berlo perché voleva soffrire in piena coscienza, compiendo così ciò che aveva detto a Pietro al momento dell’arresto: «Non berrò io il calice che il Padre mio mi ha preparato” (E qui siamo nel gennaio 2018, in un articolo su Corrispondenza Romana di Roberto de Mattei, già vicepresidente del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) con delega per il settore delle scienze umane.
Tutto ciò per dire che nel variegato mondo cattolico del nostro Paese, accanto a parziali ma significative aperture, anche a livello gerarchico, coesistono ancora agguerrite e ben strutturale chiusure fondamentaliste, talvolta inserite nei gangli della società civile, che non vanno sottovalutate perché trovano una sponda importante nelle destre sovraniste che, come è noto, riscuotono oggi, nel nostro Paese, un ampio consenso elettorale.
Per questo, accelerare la transazione dal paradigma indisponibilista a quello disponibilista sarebbe auspicabile anche con un contributo concreto dei singoli cittadini, il che può avvenire certamente firmando il Referendum, ma anche mediante altre modalità fra cui un utilizzo ‘allargato’ delle DAT, con una stesura focalizzata sulla cosiddetta “anamnesi valoriale”.
Si tratta di una modalità suggerita, paradossalmente, dalla lettura di un testo scritto da alcuni autori cattolici che, pur contrari al testamento biologico, spiegavano correttamente come possa essere utile integrarlo con informazioni aggiuntive sulla personalità del disponente.
“Ogni persona può comunicare in forma narrativa, – scrivono infatti gli autori – atteggiamenti o desideri che riguardano possibili scenari di fine-vita, informazioni essenziali sui valori personali, anche senza entrare nel merito di specifiche situazioni cliniche. A questo proposito si parla di storia o “Anamnesi Valoriale” che può essere contenuta nelle disposizioni anticipate.”
Un esempio di essenziale testamento biologico, o DAT che dir si voglia, redatto adottando questa semplice modalità di stesura, potrebbe essere tipo il seguente:
1 – “Io sottoscritto… DICHIARO di rifiutare tutte le terapie comprese, l’alimentazione e l’idratazione artificiali se non c’è possibilità di recuperarmi pienamente ad una vita cosciente e di relazione e di voler essere sottoposto unicamente a trattamenti palliativi volti a lenire le mie sofferenze anche qualora dovessero accelerare il mio decesso”.
2 – “Nomino inoltre quale mio FIDUCIARIO… quale garante del rispetto di queste mie volontà affinché sia l’unica persona autorizzata a relazionarsi coi curanti per ogni decisione che si rendesse necessaria”.
3 – “Quanto sopra dichiarato è fondato sulla mia ferma convinzione che anche le scelte che riguardano la fase terminale della vita debbano essere affidate unicamente alla coscienza individuale, senza che alla società sia consentito altro ruolo che quello di garante della libertà di ciascuno, e che tali scelte costituiscano un’espressione essenziale della dignità umana”.
Un altro esempio potrebbe essere la “Dichiarazione ai Curanti in caso di affezione da Coronavirus” proposta da Libera Uscita nelle fasi cruciali della pandemia che affermava:
“Io sottoscritto nel pieno possesso delle mie facoltà e consapevole del fatto che nel decorso dell’affezione da Coronavirus, dalla comparsa dei primi sintomi all’insorgenza delle prime difficoltà respiratorie intercorre un periodo di tempo che rende possibile informare un paziente, raccogliere il suo consenso e pianificare le cure ai sensi dagli art.1 e art.5 della Legge 219/17.DICHIARO che intendo esercitare il mio diritto di:
1. rifiutare il ricovero in un reparto di Terapia Intensiva
2. essere assistito con Cure Palliative domiciliari fino alla Sedazione Palliativa Profonda Continua.”
In ogni caso mi pare ragionevole sostenere che ogni esplicito e dichiarato esercizio di autodeterminazione, che testimonia un orientamento filosofico disponibilista, possa essere utile per accelerare la transazione in corso nella nostra società dal vecchio al nuovo paradigma, e quindi per favorire l’istituzione di leggi e norme che consentano di accrescere la Libertà nel Fine Vita per tutti.

3 – Una Via da perseguire

Quando ho proposto a Mario Bolii il titolo “Fine vita: la battaglia infinita” non volevo intendere che si trattasse di una battaglia interminabile perché presenta ostacoli insormontabili, quanto piuttosto il fatto che ogni conquista sul fine vita si affaccia su nuovi orizzonti, forse ancor più di quanto succede per altri diritti civili.

A ben guardare infatti gli importanti passi avanti registrati anche nel nostro Paese sulla problematiche di fine-vita prendono in esame unicamente alcune situazioni di fine vita, e cioè quelle in cui è sempre coinvolta la medicina, già attivata in precedenza dal malato per curare la malattia o la disabilità, divenuta poi inarrestabile e inguaribile.
Non altrettanto esaminato dalla letteratura bioetica e filosofica è un altro tipo di fine vita, non direttamente riconducibile a un determinato stato morboso inguaribile, inarrestabile e intollerabile, quanto piuttosto all’inevitabile avanzare dell’età.
Un fine vita che non interrompe tragicamente un progetto di vita ma che, in linea di massima, lo completa, ovvero lo porta a compimento.
Come ha osservato il filosofo Piergiorgio Donatelli, “la medicalizzazione della morte nelle società democratiche avanzate che hanno conquistato la libertà di scegliere quando andarsene, rischia di sottrarci il morire come luogo ricco e pieno di significati.
La libertà ancorata al si o no verso i trattamenti. o alla decisione di morire, non riesce a pervadere l’intera scena, e il morire rimane un processo in mano alla tecnologia medica di cui ci sentiamo prigionieri.”
L’argomento non è del tutto nuovo visto che già nel 1991 un ex consigliere della Corte suprema olandese Huib Drion aveva lanciato l’idea di un’ipotetica pillola con la quale un anziano avrebbe potuto congedarsi dalla vita in modo dignitoso e pacifico, al momento opportuno.
Di recente la tematica è tornata ad essere oggetto di interesse in Olanda da parte di chi ritiene importante poter disporre di un’alternativa alla morte medicalmente assistita, una “Via Autonoma” in grado di valorizzare al massimo l’autodeterminazione delle persone e di eludere ogni forma di eterodipendenza, talvolta causa di umilianti e vane attese.
Si tratta, ancora una volta, di una questione estremamente controversa che sconfina nell’interrogativo se esista un generale diritto al suicidio.
Una questione che tuttavia non dovrebbe essere elusa perchè – come sostiene il giurista siciliano Giovanni Fiandaca – “una risposta affermativa fungerebbe da premessa maggiore utile a configurare come diritto anche l’assistenza al morire.”
“Sulla natura giuridica del suicidio – continua Fiandaca – nessuna norma di legge prende espressamente posizione e, mancando indicazioni certe di matrice legale, la dottrina giuridica esprime un ventaglio di posizioni che vanno dall’ ‘atto antigiuridico’ a un ‘diritto di libertà’, mentre In posizione intermedia si collocano le tesi che lo definiscono un ‘atto tollerato’, un ‘atto indifferente’ o un ‘atto di libertà’.”
Ma nonostante i tribunali costituzionali evitino in genere di prendere posizioni nette quando sono in gioco questioni eticamente sensibili, la Corte costituzionale tedesca ha recentemente sviluppato un ampio e rigoroso impianto argomentativo sfociato in affermazioni di principio esplicite e univoche, a favore di un diritto generale al suicidio.
Secondo la corte tedesca il diritto generale al ‘rispetto della personalità umana’ ricomprende anche il “Diritto alla Morte Autodeterminata” che include a sua volta il diritto al suicidio, nonchè la libertà di chiedere a terzi un aiuto al morire e di avvalersene, ove questo venga offerta.
Inoltre il Diritto a una Morte Autodeterminata – secondo la Corte tedesca – non è circoscrivibile alle sole situazioni di grave malattia e sofferenza, né può essere limitato da una valutazione esterna delle motivazioni che spingono al suicidio.
Nella ricca motivazione della sentenza, articolata in 96 pagine, l’obiezione secondo cui il riconoscimento di un diritto al suicidio potrebbe essere in contrasto con la garanzia costituzionale della dignità umana, viene rovesciata affermando, al contrario, che è proprio il rispetto dell’autodeterminazione personale, quale espressione diretta della dignità dell’uomo, ad imporre il riconoscimento del diritto generale di togliersi la vita.
Su questa stessa linea argomentativa si pone il “The Peaceful Pill handbook”, in Italiano – “La pillola della Quiete”, un manuale pubblicato da Philip Nitschke, medico australiano e fondatore di Exit International, e Fiona Stewart, giurista e sociologa, che si propone di fornire informazioni ricercate su eutanasia e suicidio assistito ad anziani e malati gravi, alle loro famiglie e ai loro amici.
Avvicinandomi alla conclusione vorrei riproporre alcune considerazioni in merito dello storico / saggista Aldo Schiavone:
“Mi piace immaginare un futuro nel quale ciascuno di noi, ad un certo momento, potrà fare i conti con la propria vita e decidere serenamente che, nelle condizioni personali date, quell’esperienza possa dirsi conclusa.
La paura della morte è anche la conseguenza di un piano di vita che si interrompe e si spezza, avendo ancora tante cose da fare senza poterle concludere. Sono le vite interrotte, strozzate, segnate dalla radicalità dell’ingiustizia e dell’incompiutezza, quelle in cui la morte diventa insopportabile sofferenza. E’ straziante la morte di una persona di vent’anni, ma anche di sessanta, se ancora piena di idee, energie ì, di affetti.
Se però riusciamo a immaginiare altri scenari, la percezione della morte può cambiare di segno, e in un contesto emotivo dove la stanchezza del vivere e la ripetitività dei pensieri e delle emozioni abbiano avuto il tempo di affiorare e di consolidarsi, un’antropologia dell’umano post-naturale potrà includere una diversa elaborazione della morte.
Trasportare la morte dal lato della decisione, della scelta condivisa, del pacato esaurisrsi, lontano dal dolore, dalla malattia, dall’interrompersi improvviso di un progetto di vita, aiuta a vincere la paura e a darne un altro significato assai meno drammatico e violento.”
Si tratta di un un versante di indagine – aggiungo io – nel quale si intersecano e sovrappongono termini quali suicidio razionale, auto-eutanasia, vita compiuta, stanchezza o pienezza di vita, percorso o Via Autonoma, che riguardano un ‘fine vita maturo’ in età avanzata che presenta caratteristiche assai diverse dal ‘fine vita pre-maturo’ della malattia inguaribile e insopportabile e che necessita una raccolta di dati volta a promuovere una riflessione etico-filosofica sulla qualità del fine-vita nei grandi anziani che potrebbe evidenziare, come osservato da Carlo Troilo, una sorprendente varietà di orientamenti.
“Molti, anche fra coloro che non ritengono la vita “un dono di Dio”, – afferma Troilo – la considerano come una misteriosa fatalità e “si lasciano vivere”, seguendo le abitudini più consolidate – Studiano, lavorano, si sposano, formano una famiglia, invecchiano e quando si ammalano accettano come fatalità anche la decadenza del fisico e dell’intelletto, senza chiedersi se la loro vita sia ancora degna di essere vissuta.

Non si pongono il problema del trauma e dei mille problemi che la loro prolungata e inutile sofferenza rappresenta per le persone care e attendono la morte usufruendo di tutte le risorse che la medicina moderna mette loro a disposizione, e considerando quasi un dovere assoggettarsi anche a terapie prolungate ed invasive in cui essi stessi non ripongono una reale fiducia – Per loro la morte è “un evento” come gli eventi della natura, ovvero realtà su cui non si può influire.
Per altre persone invece la propria vita mantiene la sua dignità solo finché sono in grado di perseguire quei valori, e di ottemperare a quei doveri che hanno posto a fondamento del loro modo di essere e di vivere.
Quando la malattia o la vecchiaia impediscono per sempre a queste persone di perseguire gli obiettivi che sono stati fra le ragioni primarie del loro vivere; quando non hanno più nulla da dire e da dare nemmeno a familiari ed amici; quando essi stessi non desiderano più vivere; quando la mente spenta ed il corpo incontinente li fanno sentire come un peso insostenibile per se stessi e per le persone che amano: allora essi vogliono poter esercitare fino in fondo quel diritto all’autodeterminazione su cui si sono basate le loro scelte in vita.
Ed è proprio da alcune di queste persone, fra le più motivate e convinte, potrebbe forse giungere un concreto contributo all’affermazione del principio di autodeterminazione ‘sulla’ propria vita, sotto forma di ‘coming out esistenziale’, ovvero di esplicita ammissione di un proprio orientamento ‘diverso’, che, in determinate situazioni, tende a contrapporsi al ‘naturale’ istinto di conservazione.
Qualcosa di analogo a quanto coraggiosamente espresso dal noto teologo Hans Kung recentemente scomparso nel suo ultimo libro dal titolo ‘Morire felici?’ quando dichiarò essere un ‘caposaldo’ della sua concezione del mondo la sua intenzione di non protrarre a tempo indeterminato la sua vita terrena.”
E vorrei concludere con un’ultima sua citazione che riterrei anche un auspicio:
“Per me “morire felici” non significa morire senza malinconia né dolore, bensì andarsene consensualmente, accompagnati da una profonda soddisfazione e dalla pace interiore. Del resto è questo il significato della parola greca eu-thanasia entrata in molte lingue moderne ma storpiata vergognosamente dai nazisti.”