L’incontro si è tenuto alla Casa della Cultura, in presenza e in streaming, sono intervenuti:
Susanna Camusso, già segr. generale Cgil;
Enzo Pace, sociologo, pres. gnlSdS, uniPd;
Cinzia Sciuto, caporedattrice di MicroMega;
ha coordinato Giancarlo Straini, Arci Milano.
Vedi il video dell’evento sul canale YouTube di ArciAtea.
Scarica la locandina in pdf dei tre incontri.
Vedi il primo incontro contro i ghetti nelle periferie delle città e il secondo contro i ghetti nelle campagne.
[dall’introduzione di Giancarlo Straini]
Prima della pandemia, grazie all’iniziativa dell’allora assessore Lorenzo Lipparini, 23 associazioni filosofiche e religiose sottoscrissero un protocollo con il Comune di Milano per l’istituzione, in alcuni ospedali, delle Stanze del silenzio e dell’assistenza spirituale confessionale e aconfessionale.
Quando era tutto pronto per l’inaugurazione arrivò il Covid. Oggi dovremmo riprendere questa iniziativa ma la nuova giunta comunale milanese non ha ancora risposto alle nostre sollecitazioni.
Eppure il dispositivo Stanza del silenzio è importante perché è un luogo dove pregare o meditare, un luogo “neutro” in cui coabitano diverse credenze filosofiche e religiose, un luogo interculturale.
Queste tre serate sulle politiche interculturali per l’inclusione nascono dall’estensione di quell’idea, dalla convinzione che non dobbiamo semplicemente promuovere la tolleranza, la carità, il paternalismo.
La tolleranza può produrre anche il cosiddetto multiculturalismo dell’indifferenza, cioè comunità ghettizzate, gestite da cacicchi interessati a mantenere l’omogeneità della loro “piccola patria”, e non a promuovere la permeabilità verso il resto della società.
Da qui la convinzione che potesse essere utile discutere – anche in termini più generali – sulla necessità di politiche interculturali per l’inclusione, contro la formazione di ghetti nelle periferie delle città (come abbiamo fatto lunedì 29 novembre) e nelle campagne (lunedì 6 dicembre).
In questa terza e ultima serata vorremmo ragionare sugli schemi interpretativi, portare un contributo su come leggere questi fenomeni complessi.
L’argomento è talmente vasto e complesso che mi limiterò a indicare, in pochissimi minuti, solo qualche titolo e qualche suggestione prima di passare la parola ai relatori.
Da alcuni decenni, in particolare dagli anni ‘90, è in corso una seconda globalizzazione.
La prima globalizzazione moderna – quella della Belle Epoque, di fine ‘800/inizio ‘900 – è terminata con le due guerre mondiali. Non sappiamo se questa seconda globalizzazione terminerà con catastrofi, continuerà senza limiti, o troverà un equilibrio.
Quello che è certo è che le nostre società – a causa dell’espansione delle comunicazioni, e non solo – sono ormai irreversibilmente multietniche.
Il pluralismo etnico, religioso, culturale può essere una ricchezza o fonte di problemi. Dipende dalle scelte politiche che facciamo oggi; dagli schemi interpretativi che usiamo oggi; dalle buone pratiche dell’oggi (anche quelle micro, come le Stanze del silenzio).
Qui siamo tutti decisamente contro chi alimenta le paure generate dai fenomeni migratori; paure alimentate per raccogliere consensi elettorali; dichiarazioni che in realtà non frenano i flussi dei migranti, ma che alimentano le divisioni e peggiorano la vita sia degli autoctoni che dei migranti.
Lunedì scorso è stato detto che le migrazioni – sia quelle internazionali di oggi, sia quelle interne degli anni ‘50 e ‘60 – da un lato sono spinte dal bisogno e dall’altro sono “tirate” dalla domanda di manodopera; una domanda di lavoro che però richiede (consapevolmente o meno) migranti senza diritti, ricattabili, preda dello sfruttamento, talvolta della criminalità.
Forse intervenire sui fattori “pull” delle migrazioni, cioè sulla domanda di manodopera, regolarizzandola, dotandola degli stessi diritti di cittadinanza degli italiani, avrebbe anche l’effetto di governare i flussi migratori più e meglio della costruzione dei muri ai confini.
Nei precedenti due incontri abbiamo anche evitato una rappresentazione “buonista”, edulcorata, ingenua. Non serve una politica che si limiti a tifare contro qualche avversario politico, che si proclami astrattamente contro i confini senza intervenire sui nuovi confini che si riformano intorno ai ghetti delle campagne o delle periferie delle global city.
Servono politiche interculturali inclusive oggi, per evitare che si formino banlieue, che le seconde/terze generazioni di immigrati reagiscano all’esclusione di fatto, affidandosi a identitarismi settari etnico-religiosi.
Si discute molto se sia in atto una rinascita religiosa (una revanche de dieu, una riconquista del mondo, come scrive Kepel). Le ricerche (per esempio quella di Garelli: Gente di poca fede) indicano un aumento di atei e agnostici soprattutto tra i giovani; un aumento del pluralismo delle confessioni religiose; l’adozione, anche da parte della maggioranza di chi continua a definirsi cattolico, di una religione “a bassa intensità”, basata più sull’appartenenza che sulla credenza; forme di spiritualità post-moderne, New Age.
Poi ci sono anche gruppi – in tutte le religioni – che si radicalizzano, che occupano lo spazio lasciato vuoto dalla politica, soprattutto dalla crisi del pensiero socialista che, nel bene e nel male, in passato ha fornito anche un orizzonte si senso, una utopia, una escatologia, una speranza di riscatto.
La speranza e la fiducia, talvolta ingenua o distopica, nel futuro, nel progresso scientifico e tecnologico, del pensiero politico socialista, è stata sostituita dal disincanto del pensiero debole e post-moderno, che decostruisce tutto ma finisce per accettare l’esistente (sia pure debolmente).
In questa società liquida e superficiale, senza passato e futuro, proliferano i frammenti: populismi che criticano le élite ma si affidano a un “capo carismatico”; movimenti monotematici (single issue); corporativismi; settarismi; fondamentalismi.
Uno dei possibili sbocchi dell’attuale globalizzazione è una società neofeudale, una convergenza tra pre-moderno e post-moderno neoliberista, basata su un astratto cosmopolitismo che fa da cornice a concreti corporativismi e localismi, come i potenti feudatari si rapportavano al debole cosmopolita Sacro Romano Impero.
Senza delle lungimiranti politiche interculturali per l’inclusione temo che potremmo alimentare qualcosa del genere.